Chiara Gamberale: «Il mio romanzo? Un libro di persone in fuga, ma dedicato a chi resta»
Cos’è l’abbandono? La risposta non è semplice: da una parte il dolore di essere lasciati, dall’altra la paura di farsi trasportare da nuove occasioni. C’è bisogno di coraggio, insomma. Lo stesso dell’autrice che, in questo romanzo intimo e profondo, affronta di petto quelle paure, quelle ferite, quei rimpianti che appartengono a tutti noi. Trovate anche voi il coraggio di abbandonarvi e lasciatevi trasportare dalla lettura. Il risultato potrebbe stupirvi.

L' isola dell'abbandono
Chiara Gamberale
Da poco più di un anno Chiara Gamberale è diventata mamma.
“Cosa c’entra?” vi starete chiedendo, "con il libro di cui vogliamo sapere tutto?". C’entra, eccome se c’entra! Già, perché la maternità è uno dei temi centrali de “L’isola dell’abbandono”, ultimo romanzo della scrittrice romana.
È un romanzo doloroso e nel contempo pieno di speranza, una storia che ci porta in volo sulle spiagge dell’isola di Naxos - luogo caro all’autrice - proprio lì dove il principe Teseo abbandonò Arianna dopo aver ucciso il Minotauro, proprio lì dove la protagonista del romanzo è abbandonata dal suo compagno, il “labirintico” Stefano. Ma ne “L’isola dell’abbandono” il viaggio non è solo geografico: navighiamo fra i miti, ci muoviamo nella storia, camminiamo nella letteratura.
Si viaggia insomma nell’animo umano, tra speranze e dolori, sogni e delusioni.
Si scava tra le pieghe della lingua, perché nelle origini di una parola, nelle sue radici, è ancora possibile ritrovare le tracce di chi siamo, di chi eravamo e di quel che potremmo diventare.
Vi siete mai chiesti da dove deriva l’espressione “piantare in asso”? Lasciate che sia Chiara a raccontarvelo, assieme ad una storia che merita di essere ascoltata.
Perché è anche la vostra.
Parlaci del tuo ultimo romanzo, Chiara. Che storia è quella de “L’isola dell’abbandono”?
“L'isola dell'abbandono” racconta delle trasformazioni che avvengono in noi quando la vita ci chiama a scegliere e non ci consente più di giocare a nascondino con noi stessi. Una situazione che viviamo quando ci innamoriamo, quando perdiamo qualcuno che ci è caro o quando ci nasce un figlio. Posti di fronte a questi eventi, i miei protagonisti hanno tutti paura e reagiscono in maniera differente. C'è chi è disposto a cambiare, c'è chi non ce la fa, c'è chi ci mette dieci anni per capire che forse “sull'isola dell'abbandono” – dove tutti questi eventi acquistano il loro senso profondo – è bene tornare, perché è lì che ha lasciato qualcosa di molto importante per la sua identità.
Racconto delle trasformazioni che avvengono in noi quando la vita ci chiama a scegliere e non ci consente più di giocare a nascondino con noi stessi.
Già, ma ci si distrae facilmente anche dall'abbandono, e forse ci vuole costanza per riuscire a lasciarsi andare. Sei d'accordo?
“Costanza” è un'altra parola chiave del mio romanzo. L'isola dell'abbandono è un posto dove abbiamo la possibilità – ma corriamo anche il rischio – di soffermarci su ciò che di bello o di doloroso ci succede. Ci vuole costanza, però, perché gli eventi spesso ci investono e oggi più che mai abbiamo molta fretta di superarli, per poter forse ritornare all'illusione di controllare le nostre vite, anziché cogliere l'occasione di capire davvero chi siamo.
Hai dedicato il tuo libro "a chi resta”. Chi resta è sempre più meritevole di chi lascia, dunque?
“L’isola dell’abbandono” è dedicato a chi resta perché è un libro di persone in fuga.
Anni fa non capivo pienamente quanto fosse prezioso il valore di chi resta. Ma scrivendo questo romanzo ho sentito che ero arrivata a un momento della mia vita in cui era ora di celebrare chi rimane e dice: “Io ci sono, eccomi”.
Leggendo scopriamo l'etimo di un'espressione proverbiale: "piantare in asso". Come sei inciampata nelle radici di questo modo di dire?
Quando ho cominciato a studiare greco al ginnasio del liceo classico, ho scoperto un'altra dimensione del linguaggio e dell'essere umano grazie a un’insegnante meravigliosa, la professoressa Paola Ricca.
Fu proprio lei a raccontarmi per la prima volta dell'etimologia dell'espressione “piantare in asso”, legata al mito di Teseo, del Minotauro e del filo di Arianna.
È proprio grazie al mitico filo che Teseo esce dal labirinto di Cnosso e promette alla principessa Arianna di sposarla dopo averla portata con sé ad Atene. Ma a metà strada, sull’isola di Naxos, la abbandona, la “pianta in Naxos”, un’espressione che si è poi trasformata in “piantare in asso”.
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A proposito di labirinti, citi una frase di Camus: «Un uomo labirintico non cerca mai la verità, ma sempre e soltanto Arianna». A tuo parere, gli uomini sono tutti labirintici?
Il mito di Arianna non viene mai citato direttamente nel romanzo, ma si sente nell’aria: protegge e minaccia i personaggi. Prima di scrivere, quindi, ho sentito il bisogno di studiare tutte le possibili fonti: ho riletto le “Vite parallele” di Plutarco, che comincia con Romolo e Teseo, e sono andata alla ricerca di tutti i pensatori che si sono fatti ispirare dal mito, tra cui proprio Camus con la teoria dell’uomo labirintico.
Fra i tre personaggi maschili del romanzo, uno è sicuramente un uomo labirintico. Ma in giro ce ne sono tanti di uomini – e anche di donne – così. Sono persone che, anziché affrontare il proprio labirinto, contagiano gli altri con le loro difficoltà a trovarne l'uscita. Il rischio? Finire dentro la trappola in due.
Un'altra parola molto bella, che pervade molte pagine de “L’isola dell’abbandono”, è “nostalgia”. È il nostos, il ritorno a casa...
Io vivo di nostalgia. Pensate che il decoro principale di una borsa che porto sempre con me è la tastiera di un telefono anni sessanta, di cui sento molto la mancanza. Mi manca talmente tanto che mi ostino ad avere ancora un vecchio cellulare e non uno smartphone, perché, essendo compulsiva come la mia protagonista, ho paura che se avessi un altro tipo di telefono potrei restare intrappolata nel suo labirinto.
Mi proteggo così, e anche la tastiera del vecchio telefono sulla borsa è un po' un amuleto.
Nel tuo libro c'è un continuo dialogo con la Grecia del mito. È forse un modo per sottolineare come i temi che danno forma al narrare siano in fondo un po’ sempre gli stessi?
Prima di scrivere questo libro, ero arrivata a un punto della mia vita e della mia carriera di scrittrice in cui avevo bisogno di dedicare un romanzo alla sindrome dell'abbandono e di intitolare un mio testo utilizzando due parole tanto importanti per me: “isola” e “abbandono”.
Quando sento un'urgenza, però, ho subito bisogno di capire come ne potrò scrivere. Ed è a quel punto che ho visto l'Isola di Naxos, in Grecia, un posto che amo da sempre e dove mi sento a casa.
E il mito di Arianna e Teseo è come se dicesse che, nonostante quando veniamo abbandonati, ci nasce un figlio o ci innamoriamo, ci sentiamo le prime e le ultime persone sulla faccia della terra a vivere quell’esperienza, tutto è già successo tantissimo tempo fa, moltissime volte e continuerà a succedere.
Questo pensiero mi dà un certo conforto, mi sento un po’ meno sola.
La maternità è un evento talmente potente che ti investe come gli uragani che sconquassano la terra: arriva e si prende tutto. Ti svuota e ti riempie nello stesso identico momento.
Quando nel libro parli di “uragano figlio” si sente che le tue parole prendono spunto da un'esperienza reale che hai trasposto nel tuo romanzo...
Fra le varie rivoluzioni che investono la vita dei miei personaggi, c'è anche quella della maternità. Una rivoluzione che recentemente ha investito anche la mia: da 15 mesi sono la mamma di una bambina, Vita, e comincio un po’ a capire cosa voglia dire essere madre.
La maternità è un evento talmente potente che ti investe come gli uragani che sconquassano la terra: arriva e si prende tutto. Ti svuota e ti riempie nello stesso identico momento.
Quali sono le tue abitudini di scrittura oggi, dopo l’arrivo di tua figlia?
Prima della nascita di mia figlia, ho sempre scritto di mattina presto. Ormai, invece, la mattina non è più mia, perché c'è Vita: ed è proprio tutta un'altra vita!
Prima della gravidanza avevo iniziato a scrivere “L’isola dell’abbandono” di mattina, dopo la nascita di mia figlia l'ho scritto prevalentemente di notte. E forse anche per questo la lingua di questo romanzo è diversa dai precedenti.
Durante la gravidanza, invece, non sono riuscita a scrivere nemmeno una riga. È incredibile! È stato l'unico momento della mia vita in cui non ho scritto nulla. Evidentemente il mio corpo era così impegnato nella creazione che non lasciava spazio ad altro tipo di ispirazione…
Prima di concludere, ci lasci qualche consiglio di lettura, Chiara?
Nel primo anno di maternità si legge meno e si vedono meno film. O almeno a me è capitato così.
Nell’ultimo periodo ho letto prevalentemente libri per bambini, scoprendo con meraviglia che spesso non sono affatto scontati. Ma, dato che ora Vita ha 15 mesi, sto provando a ritornare in contatto con me stessa, a capire chi sono diventata, e mi sono lanciata una sfida: rileggere tutta l’opera di Dostoevskij, dal primo romanzo fino a “I fratelli Karamazov”.
Per ora sono arrivata a “Le notti bianche”.
Chiara Gamberale (Roma, 1977) partita come giovanissima speaker radiofonica, ha collaborato con «Il Giornale» e nel 199c6 ha vinto il Premio di giovane critica Grinzane Cavour, promosso da «La Repubblica». Ha esordito nel 1999 con Una vita sottile (Marsilio, premioa Opera prima Orient-Express, Un libro per l'estate e Librai di Padova) Altre sue opere sono: La zona cieca (Bompiani 2008, premio selezione Campiello), Quattro etti d'amore, grazie (Mondadori 2013), Per dieci minuti (Feltrinelli 2013), Avrò cura di te (Longanesi 2014) scritto con Massimo Gramellini, Adesso (Feltrinelli 2016), Qualcosa (Longanesi 2017) e L'isola dell'abbandono (Feltrinelli 2019). È inoltre autrice e conduttrice di programmi televisivi e radiofonici. Collabora con «La Stampa» e «Vanity Fair» e ha un blog sul sito di «Io Donna» e del «Corriere della Sera».