Non perdiamo di vista Federica Bosco
In Non perdiamoci di vista Federica ci porta con sé in una corsa fra le memorie degli anni per lei seminali e indimenticabili sempre stemperando l’umore agrodolce del “come eravamo” alla luce di un sorriso per tutto ciò che siamo diventati.
Pantacollant color fucsia e scaldamuscoli in spugna bianca, capelli cotonati e spalline imbottite, hit evanescenti di pop inglese e permanenti laccate più dure del marmo. L’adolescenza di Federica Bosco si è consumata nei roaring eighties e il fiume della memoria, se si è una scrittrice talentuosa e frizzante, va guadato a bordo di un romanzo capace di solcarne le acque impetuose senza piegare troppo le vele al vento della nostalgia. E allora non laviamo i panni in Arno, non è ancora tempo: perché in Non perdiamoci di vista Federica ci porta con sé in una corsa a rotta di collo fra le memorie di quegli anni per lei seminali e indimenticabili sempre stemperando l’umore agrodolce del “come eravamo” alla luce di un sorriso per tutto ciò che siamo diventati. I protagonisti di questo romanzo – che va divorato come due fette di pane toscano farcite con prosciutto crudo e pecorino di Pienza - non sono congelati nel tempo e assistiamo alla loro crescita attraverso la scrittura vivace e dalla grande verve aforistica cui Federica ci ha abituati. Certo: il tempo è passato per tutti, e così nel corso del viaggio parteciperemo a matrimoni sbagliati, incapperemo in non più giovanissimi animali da festa e dovremo stare attenti a non precipitare in qualche botola di botulino, messa lì in un maldestro tentativo di scongiurare i segni del tempo. E naturalmente faremo approfondita conoscenza di Benedetta, la protagonista, che fra una playlist nostalgica e l’altra avrà tempo di imparare (e di insegnarci) qualcosa a proposito di accettazione e maturità. Signore e signori, Federica Bosco!
Ciao Federica, e bentornata in IBS! La parola d’ordine, questa volta, è “Non perdiamoci di vista” … racconta!
Tutto è iniziato quando avevo 15 anni e abitavo a Firenze. Era arrivata l’età in cui sarei potuta uscire da sola, ma ai miei venne l'idea geniale di andare a vivere in campagna… a venticinque chilometri da Firenze! In pullman ci si metteva quasi un'ora a raggiungere la città e non avendo né auto né motorino, ero bloccata. Fortuna volle, però, che proprio davanti a casa mia ci fosse un piccolo parcheggio. Lì incontrai una compagnia di ragazzi della mia età. Fu la mia salvezza perché diventarono i miei ragazzi del muretto, anzi, i ragazzi della Santa, da Santa Caterina, che è il nome della Via. In quegli anni è successo di tutto: si stava a chiacchierare, si fumava di nascosto, ci si innamorava… Poi, come spesso accade, ci siamo persi. Fino all’arrivo di Facebook, che ci ha permesso di ritrovarci: siamo un po’ più anziani, ma ci vediamo con gli stessi occhi di allora: con le spalline, gli anfibi e i capelli cotonati. Non perdiamoci di vista è un tributo a quegli anni e a quei ragazzi.
Facciamo un gioco: prova a individuare – così, a caldo - i tre cambiamenti più grandi tra la cultura pop degli anni ‘80 e quella di oggi.
La tecnologia, la mancanza di rispetto e l’ansia da prestazione.
Se non ci fosse l'attesa non ci sarebbe nemmeno la speranza. Negli anni ’80 l'attesa era tutto…
… wow! Puoi approfondire, per favore?
A livello tecnologico noi non avevamo niente. I social hanno semplificato moltissimo la vita, anche se - per certi versi - ci hanno preso un po’ troppo la mano e in giro si vedono compagnie di ragazzi con la testa perennemente china sul telefono. Noi parlavamo guardandoci in faccia! Poi c’è la mancanza di rispetto. Nel libro ne parlo tanto, perché trovo ci sia una differenza enorme nell’educazione. La nostra generazione ha ereditato molto dagli anni ’50 - decennio rigidissimo - tra cui il rispetto per le autorità e per gli adulti. Qualunque bambino che rompeva le palle in un cortile poteva essere cazziato da un adulto. Oggi questo è impensabile, e io credo che sia un errore, perché sì dà ai ragazzi un potere che non sanno gestire e che non gli compete. Infine, c’è l’attesa. Quando scrivevamo una lettera, noi dovevamo aspettare una settimana per leggere la risposta. È l’arco temporale del Piccolo principe, che ti fa battere il cuore aspettando di ricevere una replica. Oggi invece pretendiamo tutto subito e non ci rendiamo conto che la persona dall’alta parte del telefono ha una vita. Magari sta guidando o semplicemente non ha voglia di rispondere … Bisognerebbe usare tanto buon senso e ritagliarsi delle pause, riprendendo la buona abitudine di parlarsi guardandosi negli occhi.
… l’attesa come valore?
Se non ci fosse l'attesa non ci sarebbe nemmeno la speranza. Negli anni ’80 l'attesa era tutto: non esisteva l'ansia da “Oddio! non c'è il Wi-Fi!”. Il tempo era dilatato: il sabato pomeriggio ce lo vivevamo perché era l’unico momento per stare assieme. Era il famoso “sabato del villaggio”. Poi c’era il sabato sera e il rito della preparazione di quei look pazzeschi, per andare a chiudersi in postacci dove si finiva sempre a fare a bottigliate [ride].
Che anni fantastici, eh, Federica?
Si pensava che ogni serata potesse essere decisiva e che ogni festa potesse cambiare la vita. La bellezza di quegli anni è fissata nel cuore, in quei tramonti e in quelle estati. Mi mancano moltissimo.
Dello stesso autore
Federica Bosco, scrittrice e sceneggiatrice, ha al suo attivo una ricca produzione di romanzi e vari manuali di self-help. È stata finalista al premio Bancarella 2012 e il suo romanzo Pazze di me è diventato un film diretto da Fausto Brizzi. Tra le sue pubblicazioni con Garzanti ricordiamo: "Ci vediamo un giorno di questi" (2017), "Il nostro momento imperfetto" (2018), "Non perdiamoci di vista" (2019).