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Errore mio che mi aspettavo chissà cosa. Ma qualcosa di interessante c'è.
Non sono triestina, ma ho vissuto a Trieste 10 anni, quindi credo di poter parlare con cognizione di causa. Trieste ha un razzismo latente, pericoloso perchè non si manifesta nè subito nè nei modi usuali. Nel libro non riconosco la Trieste che conosco io, che pure mi ha regalato ricordi bellissimi degli anni universitari e dei primi anni di lavoro.Però riconosco nell'autore l'orgoglio del triestino medio, che io giudico molto superficiale e poco aperto alle diversità.Se volete leggere un libro davvero bello su Trieste consiglio questo: "Trieste, o del nessun luogo", di Jan Morris. Imperdibile, superlativo. L'autrice non è triestina, quindi il libro celebra il fascino di Trieste con obiettività e profondità. Leggetelo, ne vale la pena.
Credo che lo scrittore abbia una visione molto limitata della vita. Basti leggere pagina 88 per capire il razzismo di cui facevo accenni nel mio primo commento. Si evince che i serbi sono brutti e malandati, mentre i triestini sono belli tonici. Vivo a Trieste da qualche anno e vi assicuro che quello che c'è scritto non è assolutamente vero. Covacich scrive a proposito dei serbi: " Hanno intorno i trent'anni ma sono almeno dieci anni più vecchi dei nostri trentenni. Impossibile non guardare con invidia i loro brutti denti, la loro felicità." Pagina 88 Vorrei vedere una bella foto in quarta di copertina di Mauro Covacich. Sorridente naturalmente.
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Ma non è che il primo inatteso aspetto inatteso della "più ‘altra' delle città italiane". Sul filo dell'autobiografismo Covacich porta il lettore alla scoperta della bora il vento che "fa perdere contatto con la terra" la cui violenza non va evitata ma anzi affrontata accondiscesa addirittura cercata e questa è una lezione – un gioco – che i triestini imparano sin da piccoli. Poi entriamo nei rioni quello di San Luigi dove abitava l'amata nonna Lisa – figura mirabile nel racconto memoria e amore insieme metafora dell'anima più vera di ogni triestino – e dove c'è il ricreatorio Lucchini: luogo di iniziazione al "campanilismo rionale" e a quel particolare senso civico coltivato in questi oratori laici nati sotto l'Austria-Ungheria oggi gestiti dal comune e che non si trovano in nessun'altra parte d'Italia.
Da qui le passeggiate di Covacich prendono altre direzioni: dai caffè dove si vive e si respira uno dei tratti peculiari del carattere triestino quello per cui "adesso proprio adesso la vita sta tutta nella tazzina e dopo si vedrà" ai territori dove si agitano altre ombre. Quelle dei clandestini che passano la frontiera nei boschi di Basovizza correndo nella notte là dove di giorno corrono i cultori del jogging. Quelle dei morti della Risiera l'unico campo di sterminio nazista in Italia (e qui Covacich regala pagine da antologia). Quelle dei matti di San Giovanni l'ex ospedale psichiatrico dove Basaglia concepì e attuò la sua rivoluzione un comprensorio enorme nato come una specie di mini-stato dei folli e che oggi la città si sta riprendendo poco alla volta in un'integrazione tra pazzia e "normalità" che è il vero successo della legge 180.
Fra echi e dovute citazioni di Magris Svevo Joyce Kis il viaggio nella Trieste sottosopra prosegue in altri quartieri. Come il rione di San Giacomo "un incrocio di Pigalle e Montmartre diciamo di Pigalle senza peep-show e di Montmarte senza ritrattisti" e poi lungo la riviera negli stabilimenti balneari situati praticamente nel centro urbano: "Perché il mare a Trieste è un lato della stanza ti alzi al mattino e sai dov'è stai dove stai e sai che c'è" ed è diverso dal mare di città come Napoli Palermo Genova dove il mare è "meno prossimo meno accessibile".
Passate le "osmizze" – tipiche e mitiche rivendite temporanee di vino prodotto in proprio – e il quartiere dove vivono gli istriani dell'esodo il reportage narrativo termina nel cimitero di Sant'Anna "trentasei campi della parte cattolica" più "un distretto maomettano uno greco-ortodosso uno israelitico uno evangelico uno anglicano – oltre a un ex cimitero militare situato al di là di via della Pace ma ormai inglobato e rifornito di morti più recenti". È qui che lo scrittore ritrova non tanto la storia la memoria della città e della famiglia quanto piuttosto "la verità dei nomi". Sulle tombe gli epitaffi raccontano il romanzo delle genti più diverse delle storie più diverse. Ed è qui al confine tra la città abitata "da ex uomini ed ex donne coi nomi dissonanti istoriati di lontane provenienze esodi imbastardimenti" e quella dove pulsa la confusa vita di ogni giorno che si capisce come Trieste per quanto la si metta sottosopra sia e resti una città imprendibile.
Pietro Spirito
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