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«Noi da queste parti abbiamo un nome per quest'ora, un'ora che è di tutti, un'ora che è pace e presagio. La chiamiamo tralummescuro: tra la luce e la notte. Lungo la montagna vedi la linea d'ombra che sale lenta lenta, e poi vien buio.»
Ti sedevi contr'al muro fuori dall'"usc-scio" di casa nel tepore della giornata estiva che scivolava nella sera con in mano o il «Corrierino», o «Il Vittorioso», o «Tex», o «Sciuscià» o «Il Piccolo Sceriffo» o qualunque altro fumetto o libro su cui eri riuscito a mettere le mani. Sentivi, poco lontano, gli ultimi paesani di ritorno dai campetti che si motteggiavano con tuo zio Nerìco che, la zappa in mano, rincalzava i fagioli nell'orto della Gigia... Poi, piano, calava il buio, ma lento, che quasi non te ne accorgevi.
«Radici» è il titolo di uno dei primi album di Francesco Guccini, e radici è la parola che forse più di tutte rappresenta il cuore della sua ispirazione artistica. Radici sono quelle che lo legano a Pàvana – piccolo paese tra Emilia e Toscana dove sorge il mulino di famiglia, vera Macondo appenninica ormai viva nel cuore dei lettori – e radici sono quelle che sa rintracciare dentro le parole, giocando con le etimologie fra l'italiano e il dialetto, come da sempre ama fare. Oggi Pàvana è ormai quasi disabitata, i tetti delle case non fumano più. È in questo silenzio che il narratore evoca per noi i suoni di un tempo lontano, in cui la montagna era luogo laborioso e vivo, terra dura ma accogliente per chi la sapeva rispettare. Rinascono così personaggi, mestieri, suoni, speranze: gli artigiani all'opera in paese o lungo il fiume, i primi sguardi scambiati con le ragazze in vacanza, i giochi, gli animali e i frutti della terra, un orizzonte piccolo ma proprio per questo aperto all'infinito della fantasia. Tra elegia e ballata, queste pagine sono percorse da una continua ricerca delle parole giuste per nominare ricordi, cose e persone del tempo perduto; la malinconia è sempre temperata dalla capacità di sorridere delle umane cose e dalla precisione con cui vengono rievocati gesti, atmosfere, vite non illustri eppure piene di significato. Francesco Guccini non canta più, ma la sua voce si leva di nuovo per noi, alta, forte, piena di poesia, per consegnarci un'opera che è testamento e testimone da raccogliere, in attesa di una nuova aurora del giorno.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
un diluvio di paroleparoleparoleparoleparoleparole... dunque terribilmente prolisso, per me; prolisso, perciò noioso, stancante... Guccini mi è piaciuto quando scriveva con Loriano... Guccini da solo è da evitare, per i miei gusti...
Francesco Guccini, attraverso uno stile letterario tra poesia e ballata, caratteristico di tutta la sua prolifica produzione artistica, dalle canzoni ai romanzi, consegna al lettore la testimonianza di un periodo storico oramai offuscato dallo scorrere inesorabile del tempo. Narra del piccolo paese di Pàvana, terra di confine tra Emilia e Toscana, ove trascorse gli anni dell'infanzia. Come suo consueto, attraverso l'uso di un linguaggio frammisto di italiano ed idioma dialettale, riesce a trasfigurare la scrittura in fotogrammi di un film in bianco e nero. Dove il silenzio dei luoghi oramai quasi disabitati, porta la fantasia a rievocare le atmosfere di un tempo remoto, fatte di suoni e personaggi, odori e paesaggi, lavori e giochi, gioie e dolori, che timbrano una intera comunità. Una velata e poetica malinconia percorre tutta la narrazione, moderata dalla sagacia del saper sorridere nella buona come nella cattiva sorte, dalla meticolosità della ricostruzione e raffigurazione dei ricordi e dei sottesi intrecci tra vite e destini. Tralummescuro, come già il termine lascia intendere, è una sorta di testimone consegnato alla storia, affinché il ricordo venga tramandato fino al prossimo giro della giostra.
Bellissimo, letto d'un fiato. Lo si. Può definire con una sola frase (del Maestro) "..... e Pavana un ricordo lasciato tra i castagni dell'Appennino"
Recensioni
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Con Tralummescuro (288 pagine, 19 euro), edito da Giunti nella collana Scrittori, troviamo un Francesco Guccini in veste di paesologo, con un’opera agrodolce spalmata tra il ricordo mielato di una civiltà contadina, fatta di fatica, valori e vita semplice, mescolata alla constatazione amara di un qualcosa che non c’è più, dove la frenesia moderna, il consumismo, lo stravolgimento dei costumi sociali e culturali hanno contribuito a consegnare alle nuove generazioni un mondo più comodo da abitare, ma forse meno vero.
Lontano anni luce dai lirismi di Franco Arminio, che proprio sullo spopolamento dei piccoli borghi ha costruito le fondamenta della sua poesia, Guccini, attraverso un linguaggio spesso vernacolare, ci parla di Pavana, piccola frazione di Sambuca, un tempo pullulante di vita e oggi, invece, cimitero di case disabitate e di esistenze oramai dimenticate. Dove sono finite tutte quelle genti, le loro attività, le mille dinamiche che un tempo animavano i viottoli di queste quattro casupole di montagna, pare domandarsi l’autore. La sofferenza per la fine di un’epoca destinata a non tornare è molto forte
E li vedi lassù, i tuoi boschi, verdi d’estate, un tappeto di verde scuro che ricopre tutto il Dio Appennino; rame d’autunno, secchi d’inverno gli alberi bianchi di neve, che han fatto pane e cibo per secoli, ora negletti, come spose ripudiate, come verzure senza più un senso, se non paesaggistico. E di rimpianto.
Ma nel contempo Guccini non si esime dal criticare alcune degenerazioni della vita moderna, spesso grottesca e caricaturale: l’iper protezione verso i propri figli; lo svilimento delle festività e dell’autorità; il tutto e subito sono solo alcuni dei nuovi abiti mentali affermatisi nella molle società attuale. Quelle esistenze montanare, semplici e ignoranti, compagne dell’infanzia dell’autore, cedono ora il passo a nuove leve di giovani, completamente diversi dai loro avi che in quelle terre si sono spaccati la schiena: la vita non fa sconti per nessuno, i vecchi muoiono, la ruota gira per tutti, nulla ritorna. Quel che è stato non sarà: come la luce del giorno viene vinta dal buio della notte, così un nuovo mondo si affaccia, con tutte le incognite e le diffidenze di chi ne ha vissuto un altro, più povero, ma proprio per questo più autentico.
Recensione di Alessandro Orofino
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