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Ho voluto affrontare la lettura di questo libro, che passa per una delle opere più grandi della letteratura israeliana, in un momento in cui Israele e tutto quello che ha a che fare con il sionismo mi provoca vero disturbo, come esercizio di autodisciplina. La valutazione letteraria non deve essere condizionata da considerazioni ideologiche eccetera. E poi Oz dovrebbe essere della parte ‘buona’ di Israele quindi vediamo il sionismo dal suo punto di vista. Sorvolando l’ aspetto politico (non riesce praticamente mai a scrivere la parola palestinesi ma solo arabi, le vaghe considerazioni di comprensione delle ragioni degli ‘arabi’ sono palesemente una foglia di fico appiccicata piuttosto artificialmente, le reazioni alla famiglia fascistoide solo personali e psicologiche), è proprio la scrittura a volte deludente. Pesante, prolissa irta di metafore, aggettivi e incredibilmente ripetitiva tanto da chiedersi a volte se ci sia stato un editing. La parte migliore per intensità, asciuttezza e sobrietà della scrittura è certamente il racconto del dramma materno, che è anche quello suo proprio, trattato specialmente nel finale, con grande pudore e poesia
Riconosco il grandissimo valore letterario di quest' opera ma non mi ha "catturata" : prosa molto lenta e prolissa.
Libro corale, profondo, elegante. Consigliato
Recensioni
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È arrivato per Amos Oz il momento giusto per fare i conti con il passato. E quanto questo passato sia stato importante, traumatico, ingombrante nella sua vita lo deduciamo nel modo più banale e scontato: dalle 627 pagine di testo che danno vita a Una storia di amore e di tenebra.
A circa sessant'anni il grande scrittore israeliano può guardare alla vicenda più drammatica della sua vita con una visuale allargata, collocandola storicamente e socialmente in quel momento particolare e spostandola dal piano personale a quello collettivo.
Oltre al suo nucleo famigliare stretto e al tema del suicidio della madre (finalmente affrontato in modo autobiografico), avvenuto quando l'autore era appena dodicenne, Oz racconta anche la storia di altri componenti della sua famiglia, ritornando indietro nel tempo alla generazione dei nonni e anche più in là (spostandosi geograficamente verso l'Ucraina e la Lituania) per arrivare sino alla Palestina di oggi.
Un romanzo viscerale, intimo per la partecipazione intensa sul piano personale e politico, ma anche corale per la storia di una intera collettività trascinata da una corrente che non ha mai potuto dominare.
Ancora una volta è la mitica figura dell'ebreo errante a emergere, colui che non trova pace in nessun luogo.
Scacciato dall'Europa in Palestina ("Giudeo vattene in Palestina"), una terra antica ora abitata da altri popoli, con un paesaggio e un clima profondamente diversi da quelli a cui l'ebreo dell'est, l'ashkenazita era abituato da secoli: l'entusiasmo per una nuova patria smorzato dalle nuove guerre, dalla nostalgia, dalla necessità (non nuova, certamente) di creare un gruppo solidale di autodifesa. E affrontare la successiva accusa: "Giudeo vattene dalla Palestina".
Uno splendido affresco della Gerusalemme della seconda metà del Novecento, dello Stato di Israele e del sionismo, del popolo ebraico e delle sue radici religiose e culturali, unico appiglio per millenni d'incertezza, ma anche il racconto memorabile per la sua quotidiana normalità della vita privata di una modesta e infelice famiglia. E infine l'idea di una sconfitta morale sottolineata da un suicidio esemplare (e singolo) che non può non essere metafora di quello collettivo di un popolo che ancora non ha trovato un equilibrio, una strada, un futuro certo.
"Rimasto solo in casa leggevo, tessevo sogni, scrivevo e cancellavo e scrivevo. O andavo in giro per i uadi a vedere da vicino, al buio, lo stato della frontiera con la terra di nessuno e i campi di sterpi lungo la linea del cessate il fuoco che divideva Gerusalemme fra Israele e il regno di Giordania. Camminavo dentro l'oscurità canticchiando con la bocca chiusa, ti-da-da-da-da. Non anelavo più a ‘morire o conquistare il monte'. Volevo che tutto smettesse. O quanto meno desideravo abbandonare per sempre casa e Gerusalemme e andare a vivere in kibbutz: lasciarmi alle spalle i libri e i sentimenti e avere una vita semplice, una vita di campagna, di fraternità e fatica fisica".
di Giulia Mozzato
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