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Nessuno come Rulfo ha saputo rendere la coesistenza di passato e presente, della vita e della morte, raccontare il tempo come eterno e immobile in cui tutto ciò che sta succedendo è già successo. Anche per questo è stato ammirato da Borges, García Márquez e Cortázar. Di certo Pedro Páramo è considerato il punto di svolta della narrativa ispano-americana del Novecento.
«Non ho provato una commozione simile da quando avevo letto "La metamorfosi" di Kafka» – Gabriel García Márquez
Juan Preciado torna a Comala a cercare il padre, Pedro Páramo, che non ha mai conosciuto. Ma Comala è un paese di ombre: molte voci, molte storie, e tutte sembrano provenire da un altrove misterioso. Juan Preciado dice: «Vedo cose e gente dove forse voi non vedete nulla». Ma il discrimine tra cose, gente e nulla è molto difficile da percepire e lui stesso è destinato a confondersi nel mormorío generale. Nessuno come Rulfo ha saputo rendere la coesistenza di passato e presente, della vita e della morte, raccontare il tempo come eterno e immobile in cui tutto ciò che sta succedendo è già successo. Anche per questo è stato ammirato da Borges, García Márquez e Cortázar. Di certo Pedro Páramo è considerato il punto di svolta della narrativa ispano-americana del Novecento.
Con Pedro Páramo, Juan Rulfo annuncia il modo attraverso cui la cultura di un intero continente trova forse per la prima volta una voce propria – magari a partire dalla contrazione di nuovi debiti, primo fra tutti quello con William Faulkner, e dalla contemporanea accensione di futuri crediti, come la citatissima apertura del frammento 41: «Il padre Rentería si sarebbe ricordato molti anni dopo della notte in cui la durezza del suo letto lo tenne sveglio e poi lo obbligò a uscire», che è evidente modello per il famoso incipit di Cent'anni di solitudine: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio». Con quella voce trovata l'America Latina entra in conversazione con il resto del mondo e a sua volta lo rigenera, lo porta a trovare nuove strade, racconti e nuove voci ancora. (dalla prefazione di Ernesto Franco)
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«Là troverai il mio focolare. Il luogo che ho amato. Dove i sogni mi hanno fatta dimagrire. Il mio paese, alto sulla pianura. Pieno di alberi e foglie, come un salvadanaio dove abbiamo conservato i nostri ricordi. Sentirai che li ci si vorrebbe vivere per l’eternità. L’alba; il mattino; il mezzogiorno e la notte, sempre uguali; ma con la differenza dell’aria. Là, dove l’aria cambia il colore delle cose; dove la vita aleggia come se fosse un mormorio; come se fosse un puro mormorio della vita…». Pedro Páramo di Rulfo (Einaudi, 2004) romanzo che rimbalza spesso nei salotti letterari che fu apprezzato molto da Marquez, che si ispirò per l’incipit di Cent’anni di solitudine, ma tra gli altri fu apprezzato anche da Cortázar, Sontag, Borges. E’ un romanzo che si sviluppa per sottrazione, scandito per mormorii ed evanescenze, in cui il reale e l’immaginario si fondono in un’unica narrazione. Juan Preciado cerca di dare un senso alla triste e desolata Comala, terra irridente di Pedro Paramo vincitore e vinto di questa terra. Il sentimento di Comala e di tutto il romanzo potrebbe essere riassunto in una parola, a cui Octavio Paz dà un nome. «C’è anche una parola, ningunear, che si potrebbe tradurre con “nessunare”. Nessunare qualcuno, farlo diventare nessuno: Nessuno è l’assenza dei nostri sguardi, la pausa della nostra conversazione, la reticenza del nostro silenzio. E’ il nostro nome che dimentichiamo sempre per una strana fatalità, l’eterno assente, l’invitato che non invitiamo, il vuoto che non riempiamo. E’ un’omissione. E tuttavia Nessuno è per sempre. E’ il nostro segreto, il nostro crimine e il nostro rimorso».
Premetto di avere un problema con gli scrittori sudamericani, Borges a parte, ho sempre trovato questi lavori pervasi di un esoterismo stantio, un misticismo fanciullesco. Questo libro non si discosta dalla solita marmellata di vecchie sensitive,, morti che parlano, sensazioni ultraterrene etc. Scritto male, malissimo, un tentativo di scopiazzare William Faulkner senza averne ne il talento ne la profondità di pensiero. Forse il peggior libro mai letto in vita mia.
Riconosco la potenza di questo breve romanzo e, personalmente, la difficoltà nel seguire la storia: si tratta di una vicenda ricostruita da voci effimere di presenze oltre le soglie polverose di una città abbandonata di cui si respira l'affascinante cigolare di cardini e legno. Attraverso questi sussurri si arriva a delineare la figura di Pedro Pàramo e il suo indomabile carattere. Un libro che porta lo sguardo negli angoli bui di abitazioni silenziose e, allo stesso tempo, verso un orizzonte infuocato d'una strada che prosegue oltre il tempo.
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