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Libro complesso, profondo, mitologico nel senso di percorrere i sentieri difficili e inestricabili che legano vita morte amore odio pietà. Un libro che rimane nella coscienza e nel subconscio del lettore e da cui non ti liberi più, vedendolo riemergere improvvisamente e inaspettatamente nella vita di tutti i giorni. Doloroso ma necessario, non sono d'accordo con chi dice che non ci si affeziona ai personaggi: il dottore, Helena, tutti gli attori della vita attorno al Tevere ti scavano dentro con le unghie e si accomodano in fondo al cuore. Forse il premio Strega lo meritava Nucci. Un grazie particolare ad ibs che,senza che io lo chiedessi, mi ha spedito una copia autografata "pensando di fare cosa gradita": siete magici.
raramente mi capita di sospendere la lettura o saltare intere pagine di un libro. mi è successo con questo . la curiosità di scoprire la storia del protagonista e conoscere la Roma nascosta non è bastata. a più di metà narrazione (?) ancora non ho capito gli eventi e i protagonisti. flash back infiniti e confusi. leggere un romanzo deve anche essere rilassante e nello stesso tempo stimolante. qui ho trovato solo la fatica di capire, e di conseguenza non ho provato empatia per i protagonisti.
L'idea di ambientare il romanzo lungo il Tevere, verso la foce, è assolutamente interessante, così come lo sono i personaggi; tuttavia, di buono c'è quello e poco altro. La parte centrale del romanzo, sebbene finalizzata alla comprensione di certi eventi, è troppo pesante, piena di cose che avrebbero potuto anche non esserci e nulla si sarebbe perso di importante. Invece, l'Autore si dilunga su dettagli e vicende che finiscono solo per rendere il tutto confuso e, a tratti, incomprensibile. Nulla da dire sulla parte della storia ambientata nel presente (la prima e l'ultima, per intenderci), davvero bella e scorrevole. Anche il finale non mi ha pienamente convinto; si ha l'impressione che l'Autore si fosse stancato dui scrivere e volesse ultimare frettolosamente il romanzo. Peccato, un'occasione persa.
Recensioni
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«Il filo, non devo perderlo. Ascolta. Il fatto è che questo filo non c’è. Proprio non c’è. Non è nemmeno il labirinto. Non si va né avanti né indietro. Non ha senso il tempo, né in avanti né all’indietro».
Un fiume in piena, di parole, di aggettivi, di suoni. Suoni che quasi mai, però, si risolvono nell’armonia delle parti e nella chiarezza delle definizioni, quanto piuttosto in un’unica, fangosa, vivissima cacofonia da cui essere continuamente travolti. Vale per la storia del Dottore, il protagonista di È giusto obbedire alla notte, ritrovatosi a vivere sulla riva del Tevere con un passato che non sa più se ricordare o dimenticare; ma vale un po’ anche per lo stile del suo autore, Matteo Nucci, la cui impresa impossibile è quella di incanalare nel nero di inchiostro delle sue pagine tutta l’irrequieta maestosità della vita del Tevere.
Nucci lo fa con una scrittura mimetica, densa, piena di riferimenti classici; riferimenti che però, più che alla perfezione umanistica del tempio, fanno pensare all’accumulo antiquario, a quell’horror vacui che riempie con l’eccesso (di immagini, di voci, di storie, di grida) il vuoto imperante del Tempo. Caotica e senz’ordine, d’altronde, è anche la Roma descritta nel romanzo: non il centro città dalle marmoree e fredde proporzioni, ma le baracche sconclusionate sulla riva del fiume, ultima e spesso desolante soglia prima del bosco e del caos.
Si tratta, in fondo, di un Tevere-Scamandro, di un limen, una linea di confine tra la città e l’ignoto, il giorno e la notte, Apollo e Dioniso; e come attorno allo Scamandro infuriava la battaglia per Troia, così sul Tevere infuria la battaglia della vita, forse fisicamente meno impegnativa ma non per questo meno disperata. Lo sa bene il Dottore, che con la vita ha già perso il suo primo scontro, ma lo sanno anche il perduto Luis, la luminosissima Victoria, la triste Helena, il pescatore (anche di uomini) Cesare e Giulio, il fool della situazione, che cita a memoria la Bibbia e produce un centerbe-pharmakon dalle magiche virtù.
Ma racchiudere la vita nelle pagine di un libro è dura, quasi come voler fermare a una a una le onde fangose del Tevere; a volte in effetti il lettore arranca, incespica, non ce la fa: lo scintillante dettaglio appena emerso dalle acque è subito travolto dall’onda successiva, che trascina in avanti nuovi segreti e nuove scoperte e ricostringe le vecchie sul fondo. Che fare, allora? È vero che le parole di Nucci si accumulano e scorrono in fretta, ma fortunatamente al comando c’è un narratore che è un vero e proprio titano, uno che fa di tutto e anche di più per fermare sulla pagina la corsa della Storia. Anche se solo per un singolo, meraviglioso istante.
Recensione di Elena Malvica
[…] Cesare è il primo personaggio a comparire: è uno degli ultimi pescatori di anguille e sta portando a pesca dei “turisti” […]. Con lui il fratello Giulio, un po’ mistico un po’ spacciatore. Nei discorsi che avvolgono Cesare, Giulio e i “turisti” appare, citato come una figura misteriosa e mitica il Dottore che presto si rivelerà il perno della narrazione. Archeologo di chiara fama, si è ritirato in questo angolo di mondo per studiare possibili terapie per la figlia, colpita da un’incurabile malattia genetica. La sua vita, oltre che nello studio e nella cura della bambina, si è ristretta attorno e all’interno di una piccola comunità di déracinés: Cesare e Giulio, i pescatori, Victoria, la padrona sudamericana dell’Anaconda, Helena una prostituta straniera che vi abita […], il misterioso e malato Huertas che vive in una cloaca fuori uso […]; un po’ più in là gli zingari con a capo Milan: vivono offrendo “consulenze” ai clienti di una sorta di casinò nelle vicinanze. Poche, pochissime le frequentazioni “borghesi”: il vecchio amico Sergio che tenta di riportarlo alla civiltà, la suocera (la moglie, esasperata dalla sua ossessione, se n’è andata lasciandogli la bambina), una signora incontrata all’ippodromo con la quale ha un fuggevole incontro. Matteo Nucci è un grande “paesaggista”. Ce lo dimostra nelle complesse, articolate panoramiche, debitrici tanto del linguaggio dell’architettura quanto di quello dell’urbanistica […]. Molto bello, nella sua secchezza, il paesaggio in movimento che accompagna il primo ritorno in città: […]. Ma Nucci è anche uno straordinario “dialoghista”. Gli scambi di battute tra il Dottore e la figlia malata, difficilissimi se si vuole evitare lo scivolamento nel patetico, reggono quasi senza esitazioni. Facile, ampiamente storicizzata la gestione del dialetto, ma non così quella dell’italiano usato dagli zingari. In un episodio che vede il Dottore con Sergio compare un passo particolarmente significativo del culto tributato al dialogo. Tra la merce di un rigattiere notano degli acquerelli: uno rappresenta due ragazzini sotto una pergola: cosa si staranno dicendo i due adolescenti? “Sottovoce mi sale un dialogo: ‘Annamo? Annamo dove? Ar solito posto no? Sì, annamo dopo, devo nì qui’...”. “Sottovoce mi sale un dialogo”: quasi una occulta dichiarazione d’intenti per interposta persona, o meglio per interposto personaggio. L’ammissione netta e precisa dell’amore per il dialogo, per la “parola parlata”.
Recensione di Luca Terzolo.
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