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Anno edizione: 2023
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Libro vincitore del Premio Giuseppe Tomasi di Lampedusa 2024
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Non parallele come quelle di Plutarco ma tangenti la vicenda autobiografica dell'autore, le otto vite – tratteggiate in una prosa ricercatissima e proustiana (per la lunghezza e complessità delle frasi) anche in traduzione – sono minuscole in senso microstorico, ossia appartenenti a personaggi minimi, vissuti ai margini della grande storia. Individui dimenticati che Michon, con vibrante e affettuoso trasporto, restituisce alla memoria collettiva compiendo un atto di "pietas", di profonda devozione, compassione (di nuovo intesa in senso classico) e rispetto verso i protagonisti del proprio – minuscolo – passato.
Scrittura attenta alle parole, che richiede un pizzico di attenzione visto l’uso delle subordinate. Sono storie di personaggi di cui il narratore ha sentito parlare o ha conosciuto personalmente. E’ lui il filo conduttore dei racconti. Persone qualsiasi, spesso nate e morte nello spazio di pochi kilometri, spesso vite difficili e senza nulla che meriti essere rammentato. Forse. Il primo è Defourneau l’orfano accolto nella casa contadina dove imparò a leggere e scrivere e che dal servizio militare imparò che era sempre e comunque un contadino. Michon è davvero uno dei massimi scrittori che la Francia ha ancora in vita. Ne consiglio la lettura.
Michon sa cogliere come “D’estate, il pomeriggio indugia nell’occhio dorato delle galline” e sa “sentire il vento divulgare le foglie”. Se sapesse liberarsi dalla sua vanità, cioè permettendole di esplodere, di salire in superficie perché possa evaporare e lasciare il posto alla sostanza della letteratura, potrebbe diventare secondo me uno scrittore completo, cioè uno che non ha più bisogno di domandarselo e di confermarselo di essere uno scrittore, di saperlo fare.
Recensioni
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È il 1984 quando Pierre Michon pubblica, in età già avanzata (39 anni) e dopo lunga gestazione, il suo romanzo d’esordio, Vite Minuscole, subito acclamato da critici e “lettori esigenti” (categoria ironicamente evocata nell’opera dallo stesso Michon) e rapidamente canonizzato come uno dei libri più significativi della narrativa francese di fine Novecento. Erano anni che si vociferava di un’imminente versione italiana per Adelphi: ignoro se il ritardo con cui è infine arrivata questa ammirevole traduzione di Leopoldo Carra sia da imputare a problemi extraletterari, all’arduo compito di maneggiare una lingua densissima, o allo scarso interesse in cui sono piombate le lettere francesi dalle nostre parti negli ultimi decenni. Qualche segno di un ritorno di fiamma editoriale nei confronti della “scena” d’oltralpe, volendo, c’è: ad esempio la concomitante pubblicazione di altri due libri di autori poco noti all’estero ma come Michon molto stimati in patria, “Bussola” di Énard (E/O) e “Terminus radioso” di Volodine (66thand2nd), entrambi consigliatissimi.
“Vite minuscole”, oltre a essere quasi unanimemente considerato il risultato più alto (ad oggi) di Michon, resta uno dei migliori esemplari di un genere che in Francia gode di grande successo, quello delle “biofinzioni”: brevi racconti di vita più o meno romanzati, dove singoli o numerosi personaggi - famosi o perfetti sconosciuti - fanno i conti con autori ingombranti che tendono per lo più a piegare le biografie in questione a personalissime esigenze poetiche e a volte (come nel caso di Michon) autobiografiche (vite immaginarie, anteriori, minuscole: Schwob, Yourcenar, Quignard, Macé, Modiano, lo stesso Carrère e via dicendo). Le vite di cui parla Michon sono quelle del passato contadino della Francia meridionale, dov’è nato e cresciuto e che l’autore ricostruisce attingendo a un immaginario orale e famigliare: ci sono preti, garzoni, antenati finiti in America o in Africa a inseguire l’avventura coloniale (la figura di Rimbaud tanto nella scrittura quanto nei ritratti è onnipresente); c’è un matto rinchiuso in manicomio, una sorella morta in fasce. L’idea è quella di riesumare quel mondo rurale nella sua profondità quasi mitica (un po’ alla Faulkner) ma anche di ricostruire egoticamente la genealogia dalla quale è emersa, nei decenni e dopo innumerevoli contorsioni, la scrittura e la lingua (iper)letteraria che quel mondo scomparso in un certo senso “salva”, narrandolo: in una parola il libro che leggiamo (vedi alla voce Proust). Michon racconta la storia della formazione di un artista ambiziosissimo (sè stesso) non priva di cliché decadentisti (derive, alcol, droghe), proiettandola nella sua più o meno leggendaria ascendenza contadina. Tutte le cadute, la vanagloria, le contraddizioni di un simile progetto emergono gradualmente nei giochi di specchi e nel corpo di una scrittura che si compiace di trasportarci, nel giro di poche frasi (barocche, fastose, super aggettivate), sulle vette di un lirismo teso all’estremo per poi precipitarci a terra in un brusco, ironico, disincanto. Michon esita in maniera quasi schizofrenica tra un manganelliano sentimento della letteratura come menzogna e la capacità sciamanica della stessa di ridare la vita, di evocare mondi. È forse l’aspetto più interessante: non tanto il mondo rurale, non solo le pagine di rara bellezza, ma la traccia esibita di una debolezza, di una goffaggine originaria, del narcisismo e della paura del fallimento che si annidano dietro ogni impresa artistica - e che gli autori, solitamente, fanno di tutto per nascondere.
(…) La stesura di Vite minuscole è una svolta fondamentale nella vita di Pierre Michon che, cresciuto in un ambiente rurale, figlio di una coppia di maestri elementari, ha voltato le spalle al mondo delle sue origini prima per gli studi universitari, poi, nel 1968, per la politica militante e per il teatro impegnato. Dopo anni di erranza (…) Michon scopre all’inizio degli anni Ottanta quel che sbloccherà il suo impulso creativo: il desiderio di ridare voce alle umili e ormai dimenticate figure della sua infanzia. Vi riuscirà mettendo a punto uno stile aulico e immaginoso, che nella sua ricchezza un po’desueta, sembra in forte contrasto con la realtà dimessa del suo paese d’origine. Ma proprio quel contrasto è la cifra originalissima della sua scrittura (…).
Ognuno dei racconti che compongono Vite minuscole ricostruisce, in modo congetturale e fantasioso, la biografia di un personaggio che Michon ha conosciuto o di cui ha sentito parlare nell’infanzia o nella prima giovinezza. Personaggi non illustri, ma che si rivelano, osservati da vicino, tutt’altro che insignificanti. È la parte d’ombra e di mistero di queste vite miserabili a trasformarle in leggenda, come le vite dei santi medioevali per i loro devoti contemporanei. L’orfano André Dufourneau va a cercar fortuna in Africa, dove si arricchisce. A un certo punto, non darà più notizie di sé. Forse nella sua scomparsa non c’è nulla di romanzesco; ma la nonna di Michon, Élise, che a suo tempo gli ha insegnato a leggere e a scrivere, fantastica sul suo destino trasformandolo in un romanzo esotico. Un vecchio analfabeta vive gli ultimi mesi della sua esistenza di clochard in ospedale; lo scrittore, suo compagno di stanza, vede in lui una figura nobile della sofferenza umana, che sembra uscita da un quadro di Rembrandt. Otto esistenze di contadini, di poveri, di falliti, sottratte all’oblio raccontano la civiltà rurale scomparsa della quale hanno fatto parte.
Nella ricostruzione del mondo contadino intrapresa da Michon non c’è nulla di sociologico. E nemmeno si tratta della rievocazione di un ambiente idealizzato (…). Quello di riportare in vita l’universo povero, frusto e crudele legato ai suoi primi ricordi è per Michon una sorta di imperioso dovere, analogo al “dovere di memoria” dei sopravvissuti di una catastrofe. (…) La verità che Michon persegue in Vite minuscole è comunque una verità artistica, non documentaria. Spesso il narratore avanza supposizioni e racconta con suggestiva evidenza scene che “avrebbero potuto aver luogo”, senza affermarne la realtà. Intorno ai personaggi evocati fluttua così una sorta di nebbia, che sottolinea la loro lontananza nel tempo e la distanza irrevocabile introdotta dalla morte.
Recensione di Mariolina Bertini
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