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Semplicemente magistrale. Una storia che non si dimentica.
Non sono ancora riuscita a scoprire il segreto degli scrittori sardi, so però che mi piacciono da impazzire. Con la loro prosa, quasi viva, riescono ad avvincermi e a trascinarmi in una terra lontana nello spazio e spesso anche nel tempo e a farmi vivere ciò che raccontano come se fossi lì con i protagonisti dei loro racconti. Anche questo romanzo, il mio primo Niffoi, ha avuto lo stesso effetto. Bellissima la storia, storia di un amore profondo ed esclusivo e di una vendetta che, sebbene rappresenti una sconfitta, ha il sapore di una vittoria. I personaggi sono tratteggiati in modo superlativo, con una protagonista forte e aspra come le rocce della sua terra. Una giovane donna che, nonostante le limitazioni imposte, cerca di affrancarsi e migliorarsi, che scopre i libri e studia, anche se in modi non convenzionali, eppure rimane attaccata alle tradizioni. Se davvero ci si può innamorare di un libro, beh.. a me con questo è successo.
Buon libro. Una delle poche pecche è che non sia stata messa a piè di pagina la traduzione delle parole scritte in sardo. Dico ciò perché non conoscendone il significato un "continentale" viene privato dal capire in pieno il romanzo (ho avuto qualche piccola difficoltà anch'io con il barbaricino, molto diverso dal dialetto della mia Ogliastra).
Recensioni
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Premio Campiello 2006.
“Il giorno che capii queste cose me ne andai da sola a Punta Corriolu. Per compagnia, portai con me un romanzo di Grazia Deledda: “Il paese del vento”. In quel libro mi ero riconosciuta più che in tutti gli altri. Quando scriveva di un paese dove le donne vivono segregate in casa con l’unica missione di procreare e lavorare, tzia Grazia parlava di Laranei o Taculé.”
Una tragedia. E’ una tragedia in forma di romanzo, il secondo libro di Salvatore Niffoi, costruita sui temi classici della tragedia di sempre. Amore, morte, gelosia, vendetta.
Un incipit da ricordare: “Me lo portarono a casa un mattino di giugno, spoiolato e smembrato a colpi di scure come un maiale.” Il morto si chiama Micheddu, la donna che lo piange e che dice, “Da noi, a Taculé, gli sgarri vengono restituiti sempre con gli interessi e un morto ammazzato senza motivo se ne porta subito altri appresso”, è sua moglie Mintonia. Sarà lei a uccidere il colpevole, e non importa se è mandante o assassino, in una nerissima e grandiosa scena finale.
L’espediente narrativo che Niffoi usa è - dopo questo inizio fulminante - raccontare la storia al passato, in una lettera che Mintonia ormai anziana scrive alla nipote dall’Argentina dove è fuggita, come una sorta di testamento. Veniamo così a sapere il tempo della vicenda, perché Mintonia incomincia proprio dalla data della sua nascita, il 21 luglio 1915. E osserviamo subito come sia un tempo senza tempo, quello della Sardegna di Niffoi. Già ne La leggenda di Redenta Tiria avevamo notato come tutte quelle storie di gente che sceglieva di morire parevano svolgersi in un’epoca remotissima, se non ci fossero state allusioni a telefonini e televisioni, e, ne La vedova scalza, l’impressione è ancora più accentuata. Perché si parla del podestà e del fascio, ma in primo piano ci sono i sentimenti primordiali che escludono ogni altra cosa, “l’amore è onore e le offese non si lavano con la lisciva!”. Mintonia ha solo undici anni quando bacia Micheddu per la prima volta, non amerà mai nessun altro e gli perdonerà le scappatelle: è la legge del Sud, a un uomo aitante si concede che abbia altre donne, è una prova di virilità che ne aumenta il valore. Siamo in Barbagia e basta accennare al resto della storia: qualche contravvenzione alla legge e Micheddu si dà alla latitanza, ogni tanto ritorna a fare l’amore con Mintonia. Anche con un’altra però, una con l’aria da signora che viene dal continente. La politica si mescola alla storia privata, a Micheddu viene attribuito l’assassinio del podestà- verranno poi sepolti quasi insieme. E Mintonia elabora la vendetta.
Ma non è né Mintonia né Micheddu il protagonista de La vedova scalza di Niffoi, come non lo erano né Redenta Tiria né tutti gli abitanti del villaggio di Abacrasta nel romanzo precedente- piuttosto la Sardegna, “terra amata e odiata, che ti accarezza col vento di maestrale e ti uccide col gelo invernale”, rude come la sua gente, dalla bellezza aspra e fiera come quella delle sue donne. Una terra in cui, come abbiamo già detto, il tempo si è fermato (“Niente cambierà mai a Laranei e Tulané. Tutti continueranno a parlare di miseri raccolti, malattie, guerre, disgrazie e magie, in attesa dell’ultimo viaggio che li porterà da nessuna parte, oltre il mistero non raccontabile della morte”). E ci piace questa forte impronta regionalistica nella scrittura di Niffoi, come ci piace - in un’epoca di globalizzazione - la sua lingua che usa il dialetto non come un vezzo ma come un insostituibile strumento, l’unico che abbia le parole giuste per dire questa storia con questi personaggi.
A cura di Wuz.it
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