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Come riesce a scrivere così? Sentimenti sopiti o sepolti riemergono, ripuliti e cesellati nel nitore di un linguaggio implacabile, ma umano. Splendido libro.
Elizabeth Strout mi incanta sempre. Non sono belle solo le sue storie, vite ordinarie di inciampi e gioie semplici, i suoi personaggi imperfetti, il suo Midwest cuore pulsante di umanità e connessioni, culla di un passato che resta aggrappato in ogni momento del presente; è bellissima anche la libertà che concede a ogni lettore di creare il suo palcoscenico, la sua personalissima chiave di accesso dentro la storia. Amgash non è solo la cittadina polverosa dell’Illinois che ha dato i natali a Lucy Barton, è soprattutto un mosaico di volti che si intrecciano, ritornano dopo un accenno, buttano sul foglio la loro tenerezza, il loro bisogno di essere compresi, i fantasmi del passato, gli angoli bui della giovinezza, i desideri e le passioni che sono sostanza della vita di ognuno. La bravura di Elizabeth Strout risiede proprio nel suo saper raccontare le persone, i gesti più semplici, profondi… universali. Il suo stile scarno e intimo sottolinea bene le imperfezioni della vita, si modella sul tema forte della sue narrazioni, la famiglia, e al contempo la sua scrittura è capace di lampi di luce e bellezza che celebrano la portata dei sentimenti e delle vicende narrate. Non pensate che sia il seguito di “Io sono Lucy Barton”, ma piuttosto una prospettiva più ampia sugli accadimenti della sua vita e sui personaggi che ne hanno fatto parte. Così come l’inarrivabile “Olive Kitteridge”, anche questo testo è composto di short story e nonostante la protagonista appaia in un solo capitolo, è perno per tutte le altre storie che gravitano qui. Regalatevelo, vi sembrerà il raggio di sole che squarcia le nuvole.
Le vite di persone differenti si intrecciano all'interno di una comunità mostrando anche lati sconcertanti. Lettura molto apprezzata.
Recensioni
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Tutto è possibile, nel posto in cui lo sembra meno
Nella bandella di questo libro ci sono quattro parole che sembrava cercassero proprio i miei pensieri di questi giorni: vergogna e desiderio, gentilezza e rancore. Si presentano così, a coppie, con un lieve ma percepibile chiasmo: i sentimenti più belli all’interno, quelli meno belli all’esterno. Un chiasmo come fosse una piccola fortezza, è la mia sensazione.
Queste parole stanno definendo il Midwest, in particolare “la storia di tutti loro, quelli che sono rimasti fra le distese di mais e di soia del minuscolo centro del Midwest [Amgash], con il suo carico di vergogna e desiderio, gentilezza e rancore.” Il Midwest, in questo caso, è l’Illinois, uno stato piatto e diffusamente conservatore (Chicago è un altro mondo) dove ogni paesino sembra diventare quella piccola fortezza dei sentimenti che sulla pagina ha la forma di un chiasmo. Quattro pareti esterne (la gentilezza, il rancore, la vergogna e il desiderio), uno sconfinato soffitto di cielo sopra e un enorme pavimento di grano sotto.
Anni fa, di ritorno da un mio lungo soggiorno nell’Illinois centrale, scrissi un reportage proprio su uno dei sentimenti di quel chiasmo: la gentilezza. Alla base del mio scritto c’era uno sconcerto: come potevano essere così gentili i modi di quegli stessi personaggi (persone reali, ospiti, genitori, giocatori di golf) in cui albergavano e fiorivano pensieri tanto violenti e intolleranti verso il resto del mondo? Tanto violenti e intolleranti anche verso la sottoscritta? Non trovai una risposta allora, in quel reportage, né l’ho trovata di recente dopo la lettura di questo libro. Sono anni che continuo a chiedermi: com’è possibile?
Eppure ho capito delle cose. Ho capito almeno una cosa per ogni personaggio che popola questo romanzo. Ho rivisto in ognuno di quei nomi e in ognuna di quelle storie almeno un episodio che tanti anni fa mi portò allo sconcerto e, lo confesso, a una buona dose di fascinazione. Il paesino immaginario di Amgash è come il romanzo che abbiamo tra le mani: potrebbe chiamarsi con un nome reale (Rantoul, Charleston, Danville, Petersburg o Monticello) e raccontare cosa succede ai loro abitanti reali, la sua funzione resterebbe quella di accogliere le vite che apparentemente non capiamo e avvicinarle. Esistono dei posti chiusi e minimi, nel mondo, in cui ogni giorno di cose ne accadono poche, ma queste poche hanno tutte a che fare con una fortezza dei sentimenti in cui a un certo punto si insinua la voglia di libertà. La voglia di evadere. Nelle forme meno consuete e più tortuose.
L’ultimo romanzo di Elizabeth Strout è un piccolo compendio di storie collegate le une alle altre dalle relazioni che i diversi personaggi intessono tra loro. Ogni storia è concentrata su uno degli abitanti di Amgash ed è una combinazione diversa di quei quattro elementi quando, appunto, cercano e incontrano forme proprie di libertà. Il Midwest e l’Illinois sono zone in cui l’America proclama più forte il proprio attaccamento ai valori puritani e conservatori: spesso, uscire dalla fortezza provoca dolore o psicosi o, ancora peggio, violenza e autocommiserazione. A volte è la guerra che porta fuori dalla fortezza, e allora rientrarci diventa la più dolorosa delle consolazioni; o è un incendio che cambia gli equilibri di quello che fino ad allora si riteneva certo; o, ancora, è l’amore quello più stravagante e insolito a forzare una volta per tutte la porta e a obbligare a una fuga il più lontano possibile. Le storie di Pete, Vicky, Patty, Abel, Dottie; i segreti e il destino di Charlie Macauley, il più memorabile, tra tutti; persino il racconto di Linda e suo marito, quello più noir e inquietante della raccolta; tutte le storie di questo libro ci portano a un passo da una risposta che non afferreremo mai in pieno perché la sua essenza è quella di contenerle tutte.
Tutto è possibile. Anche qui, forse soprattutto qui, nel posto in cui lo sembra meno.
Recensione di Marta Ciccolari Micaldi
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