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Un racconto giallo che parla di intrecci mafiosi e potere politico ma non solo. Un finale a sorpresa. Esilarante lettura.
Un racconto non un romanzo breve
In poche pagine un racconto che catalizza l’attenzione fino alla fine, un giallo avvincente che fa trattenere il fiato fino all’ epilogo inaspettato. E’ stata la mia prima lettura di Sciascia e lo consiglio vivamente!
Recensioni
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SCIASCIA, LEONARDO, Una storia semplice
(recensione pubblicata per l'edizione del 1989)
SCIASCIA, LEONARDO, Opere 1971-1983
SCIASCIA, LEONARDO, Fatti diversi di una storia letteraria e civile
SCIASCIA, LEONARDO, Alfabeto pirandelliano
recensione di Onofri, M., L'Indice 1990, n. 1
In una nota del 29 agosto 1978 apparsa in "Nero su nero", Leonardo Sciascia così concludeva una sua meditazione sulla letteratura che gli nasceva a margine del 'pamphlet' sul caso Moro terminato pochi giorni prima: "E. allora: che cosa è la letteratura? Forse è un sistema di 'oggetti eterni' (e uso con impertinenza questa espressione del professor Whitehead) che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi - e così via - alla luce della verità. Come dire: un sistema solare". Sul crinale di questo curioso platonismo lo spingevano le numerose sollecitazioni ricevute, in forza di intense riletture, da scrittori come Borges, Savinio e Borgese: nel culto delle inquisizioni filologiche in una apocrifa, metafisica e circolare storia letteraria, nella pratica della divagazione come forma suprema di intelligenza, nell'esperienza dell'arte come "sistema di tangenti sulla curva dell'oscuro", per dirla con una felice e audace formula dell'autore di "Rubè".
Da queste considerazioni sulla letteratura, che a quelle sullo scrivere il leggere ed il rileggere s'intrecciavano, lasciate cadere con impagabile noncuranza nei risvolti di copertina, nelle note finali dei testi e nei punti apparentemente morti della narrazione, hanno avuto origine le cronachette, le indagini storico-erudite, i romanzi brevi degli ultimi anni. Di deviazione in disgressione, di diversione in divertimento, sul filo di un leggerissimo estravagare, le pagine della biblioteca universale si traducevano nei modi vicari di una trasparente e non turbata esistenza, di classica compostezza e sobrietà. Il mondo dei libri offriva, insomma, la giusta chiave per penetrare nel libro del mondo. La pirandelliana "Come tu mi vuoi" poteva distenebrare il caso dello smemorato di Collegno ne "Il teatro della memoria" (1981); un passo di Montaigne gettare luce sul processo de "La sentenza memorabile" (1982); una pagina dei "Promessi sposi" ed una nota della "Storia di Milano" di Pietro Verri glossare un fatto di stregoneria del XVII secolo ne "La strega e il capitano" (1986); citazioni di Stendhal, Verga, D'Annunzio, Lawrence e Zweig chiosare le vicende giudiziarie di "1912 È 1" (1986), "Porte aperte" (1987) e "I1cavaliere e la morte" (1988); il nome di Pirandello enigmaticamente accompagnare nelle parole del brigadiere di "Una storia semplice" la rivelazione dell'assassino.
Quest'ultimo brevissimo racconto di Sciascia ruota attorno alla misteriosa morte di un certo Giorgio Roccella, diplomatico in pensione, tornato improvvisamente in Sicilia: una morte dalla quale altre, ancora più inesplicabili, scaturiranno. Una vasta folla di personaggi, tagliati in modo svelto ed essenziale, si muove sulla scena: un questore, un commissario ed un colonnello dei carabinieri con l'ansia di semplificare una vicenda complicatissima; un prete all'antica, bello alto e solenne, ma dai loschi contorni; la moglie della vittima, laccata ed inanellata, preoccupata solo del patrimonio, ed il figlio penosamente chiuso nell'amoroso ricordo del padre; il professor Carmelo Franzò, vecchio amico del morto, unico interessato alla risoluzione del caso, insieme al candido sottufficiale di polizia Antonio Lagandara, il quale, "aritmeticamente" svolgendo la catena delle deduzioni, arriva alla verità, terribile ad ammettersi, uccidendo, per legittima difesa, l'assassino. Sullo sfondo, la Sicilia (ma si dovrebbe dire l'Italia) delle istituzioni inquinate ed in odor di mafia, nella quale l'arma dei carabinieri e la polizia sono in perpetuo conflitto di competenze secondo le regole di uno spirito di corpo che considera la parte maggior del tutto.
Bisogna subito dire, però, che "Una storia semplice", nella sua peculiare qualità di giallo, si differenzia dalle precedenti. In tali opere, infatti, almeno a partire da "Il contesto" (1971), non appena gli eventi si dispongono nella luce della Verità (che nel corso degli anni si è sciolta nelle pirandelliane centomila verità) perdono di consistenza, deflagrano fino a svaporare. La determinazione lucida ed inesorabile della realtà, insomma, si converte nel suo annichilimento: man mano che i nodi vengono al pettine, il pettine, per così dire, si disintegra, ed il loro scioglimento ha come esito la proliferazione degli enigmi. La delineazione di una grande allegoria del potere procede, attraverso i tanti casi giudiziari, per via di negazione: 'omnis determinatio est negatio', a rivelarci uno Sciascia scrittore di cose e non di parole, al modo di Verga, Brancati e Vittorini, ma di cose che, in virtù delle parole, dileguano. In "Una storia semplice" ciò non accade. La verità, come nei primi gialli "I1 giorno della civetta" (1961) e "A ciascuno il suo"(1966), si ripresenta univoca ed indefettibile all'intelligenza del brigadiere, benché non si faccia pubblica con la condanna dei colpevoli, in una vicenda che si chiude nel clima di un'universale omertà
Ma questo ritorno all'antico nella costruzione della 'detective story', certo da spiegare nella storia dello scrittore, perde d'importanza quando si scopre che il thriller è assunto a mero pretesto per più gravi e vaste riflessioni di marca autobiografica; come rivelano anche i numerosi dati che trapassano dalla vita dell'autore a quella dei suoi alter ego (la vittima, il brigadiere, il professore). Ancora una volta, dopo "Il cavaliere e la morte", alcuni interrogativi radicali e privatissimi, lungi dal risolversi in quella lucida autobiografia della nazione che Sciascia non ha mai cessato di scrivere, vanno ad intramare una dolorosa ed alta meditazione esistenziale, parallela alla narrazione, che è spesso sfiorata dalla tentazione di "una risposta 'spirituale', nella delusione delle risposte 'materiali' tanto cercate", come scrisse nella prefazione ad un'opera di Giuseppe Rensi ristampata nell'87. Una meditazione che ha il suo nucleo irradiante nell'amarissima considerazione del professor Franzò: "ad un certo punto della vita non è la speranza l'ultima a morire, ma il morire e l'ultima speranza".
All'incrocio di queste riflessioni, sempre più urgenti negli anni, Sciascia non poteva che incontrare Luigi Pirandello: e si consideri circostanza non casuale che, nel romanzo, la vittima sia un uomo alla ricerca delle sue radici, tornato in Sicilia per ritrovare, appunto, vecchie lettere spedite al nonno da Pirandello. "Tutto quello che ho tentato di dire, - scriveva in un saggio degli inizi dell'89 dal titolo "Pirandello, mio padre" - tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello": un discorso, e meglio sarebbe dire un dialogo, avviato per la mediazione del film "Il fu Mattia Pascal" di Marcel L'Herbier, quando adolescente, letto il libro, scoprì, come racconta in "La Sicilia come metafora", che dentro il mondo pirandelliano egli ci viveva, che il dramma pirandelliano dell'identità nasceva in quel teatro naturale che era Agrigento, che, insomma, il pirandellismo era in natura. Un discorso mai più interrotto; dall'antico "Pirandello e il pirandellismo" (1953) al recente "Alfabeto pirandelliano", elegante dizionarietto dalla voce Abba alla voce Zolfo, in cui convergono, in forma di lievissima fantasmagoria, tutti i temi che hanno ossessionato Sciascia nel corso di una quarantennale rilettura.
Ecco allora, sull'onda di una sollecitazione onomastica o di una precisazione concettuale, ripresentarsi gli argomenti consueti: la lettura dell'intera opera pirandelliana in chiave di dialettalità, nel segno delle ipotesi gramsciane; la disamina del complicato rapporto tra Pirandello e Tilgher, lo studioso che lo rivelò al grande pubblico; le considerazioni sulle pagine di critica pirandelliana più amate, da Tozzi a Bontempelli e Debenedetti; le divagazioni sulla biografia pirandelliana che di pirandellismo si intridono. Il tutto nel quadro di un'interpretazione che, con il soccorso di Montaigne e di Pascal, ravvisa in Pirandello una sorta di cristianesimo naturale venuto a confliggere con un mondo soltanto nominalmente cristiano, nell'indifferente e cinica osservanza dei riti e delle apparenze.
L'ultimo Sciascia di buon grado scorgeva in sé questo cristianesimo naturale ora che, cordialmente e serenamente, in Pirandello aveva riconosciuto il padre. Un padre che gli era capitato e che non avrebbe voluto, a fronte dei tanti che, poi, consapevolmente scelse, per opporsi a quell'irrazionale Sicilia che nelle pagine pirandelliane gli si era manifestata. I fantasmi di questi padri, insieme a quello di Pirandello (ancora una volta), turbano la cristallina chiarezza dei saggi più significativi ed intensi della bella raccolta "Fatti diversi di storia letteraria e civile": pretesti, occasioni, brevi cronache, rapide escursioni che, con la scusa di dipanare un minimo caso una minima vicenda, si portano dietro l'infinito di una Storia privata e pubblica.
In questa prospettiva il vero centro del libro non sta nei pur splendidi scritti su Stendhal, Verga, D'Annunzio e Tomasi di Lampedusa, ma in quelli che, con nostalgia, con malinconia, ritornano ai decisivi anni dell'adolescenza e dell'apprendistato intellettuale, come "C'era una volta il cinema" e "L'Omnibus di Longanesi". Particolarmente toccante quest'ultimo dedicato alla rivista longanesiana, nella quale, scrive Sciascia, "confluivano ricerche, segnali, aspirazioni e ansietà di tutto un ventennio; dalla fine della prima guerra mondiale fin quasi alla soglia della seconda". Un ventennio nel quale davano brillante prova tutti gli scrittori decisivi nella formazione di Sciascia, diversi e spesso in conflitto, eppure uniti in quel tentativo di sprovincializzare l'Italia autarchica e fascista. E ne diamo qui elenco: Borgese, Cecchi, Savinio, Barilli, Tilgher, Rensi, De Lollis, Cajumi, Longanesi, Brancati, Vittorini, Pavese, Praz, Trompeo, Alvaro, Soldati, Buzzati, Morovich, Piovene, Moravia. Come se, nel tempo estremo, quando i tanti libri scritti gli si scioglievano, gli si confondevano, nei tantissimi letti, avesse voluto ricordarli tutti, e tutti chiamarli per nome, uno ad uno, a futura memoria.
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