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La convivenza con i regimi è un argomento che mi coinvolge sempre molto, soprattutto quando, volente o nolente, sei una parte integrante del sistema come in questo caso. A tratti divertente, profondo nell'analisi psicologica, un po' ripetitivo nella parte finale. Tutto sommato promuovo la biografia a pieni voti,
Il tentativo nobile e volenteroso di farci conoscere ed eventualmente apprezzare la figura del grande compositore purtroppo è minacciata continuamente dalla noia, per quanto sia interessante quell'estenuante bilico tra il successo e la condanna a morte che fu la sua vita sotto Stalin. A parte l'episodio notissimo di Šostacovič che aspetta vestito nottetempo l'arrivo degli sgherri di Stalin, non ci sono tensioni degne di nota.
La biografia di Shostakovic diventa un'occasione per una lettura poetica della vita del compositore russo e del senso della sua arte. Non è un libro d'azione, bensì di riflessione sull'arte, il senso della vita, il coraggio, la bellezza della musica. Non è un libro per tutti, lo ammetto, ma chi ha nelle sue corde questo tipo di lettura, lo troverà unico e bellissimo.
Recensioni
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(…) Il rumore del tempo non è la biografia romanzata dell’enfant prodige musicale del XX secolo, Dmitri Sostakovic, né la ricostruzione di un tormentato momento storico. Si tratta, piuttosto, di un lacerante scandaglio nella coscienza di un artista che non trova pace per essersi trasformato, suo malgrado, in un vigliacco. Al contempo noi lettori, immersi nelle sue stesse oscillazioni, esitiamo con lui e con lui accogliamo un destino inevitabile (…).
Tutto comincia il 28 gennaio 1936, all’indomani della performance di Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, opera acclamata tanto in patria quanto all’estero e che, proprio in virtù del suo strepitoso successo, incuriosisce Stalin. Il suo palco, tuttavia, rimane inspiegabilmente vuoto alla fine del terzo atto. Qualche giorno dopo un articolo anonimo sulla “Pravda” definisce l’esecuzione “caos anziché musica” e condanna il pianista al silenzio. È così che Šostakovic affronta il primo di tre “colloqui con il potere”, ciascuno dei quali coincide con una delle grandi crisi che attraversano la sua vita. Tra una sezione e l’altra del libro intercorrono esattamente dodici anni 1936, 1948, 1960. La prima conversazione è condotta da Zavreskij, il funzionario che accusa Šostakovic di essere stato “uno dei più importanti testimoni” nel complotto contro il compagno Stalin e gli concede ventiquattr’ore per ricordare nomi e luoghi (…). Šostakovic si presenta rassegnato al suo appuntamento con la morte, ma nel frattempo Zavreskij è stato a sua volta eliminato. Il secondo colloquio è con Stalin in persona, che lo convoca come rappresentante della delegazione russa al Congresso per la pace di New York. Šostakovic tenta di sottrarsi, appellandosi all’eventuale imbarazzo di dover fornire spiegazioni sul bando nazionale delle sue opere; Stalin corregge le disposizioni e riabilita la sua musica. A New York esegue la quinta sinfonia esibendosi davanti a 15.000 persone che battono le mani in un applauso scrosciante. Manco a dirlo, il suo trionfo ha un prezzo altissimo: ingoiare l’umiliazione di dover sottoscrivere un discorso infarcito di sciocchezze sulla natura dell’arte e di condanne esecrabili a vari musicisti fra cui il suo idolo Stravinskij che, ovviamente, si rifiuta di incontrarlo. E infine il terzo e ultimo colloquio, nel 1960, ci restituisce un Šostakovic che, ormai avanti con gli anni, affronta l’ultima massacrante vergogna di dover accettare la Presidenza dell’unione dei compositori con una sola insopportabile condizione: iscriversi al partito. “E dunque, al proprio destino non si sfugge. E dunque, era un vigliacco”, ma essere un vigliacco non è facile perché si tratta di un’impresa che dura una vita intera e che, ironicamente, si trasforma in una forma di coraggio: “Sorrise tra sé e si accese un’altra sigaretta. Il piacere dell’ironia non l’aveva ancora del tutto abbandonato”.
Recensione di Daniela Fargione
Dal momento in cui Stalin condanna la sua musica, Šostakovič non è che una foglia al vento, e la sua anima assediata dalla paura, il campo di battaglia fra codardia ed eroismo. Nella speranza che la sua arte sappia resistere al rumore del tempo.
"Un capolavoro intenso che tratteggia la vita di un uomo attraverso la lotta della sua coscienza e della sua arte con le pretese impossibili del totalitarismo" - Alex Preston, The Guardian
«Una parabola di umana degradazione in cui la minaccia di una violenza non agíta grava su ogni pagina. L'orrore del labirinto kafkiano che prende vita.» - Jeremy Denk, The New York Times Book Review
«A Barnes, che ha studiato russo a Oxford, non interessa schierarsi e dire se il compositore fosse o no un dissidente intimo (ammesso che una cosa simile esista). Quello è un lavoro da storici, non da romanzieri, dice. E nemmeno vuole addentrarsi nell'interpretazione della sua musica, non essendo musicologo. Ciò che gli preme è dar voce alla coscienza di un personaggio dannato, umiliato, eppure così geniale da essere capace, dopo un interrogatorio terrificante, di sedersi alla scrivania e scrivere un capolavoro come la Quinta sinfonia.» – Livia Manera, La Lettura
Caos anziché rumore. Così nel 1936 la Pravada, la gloriosa voce del potere accoglieva "Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk", il primo capolavoro di Šostakovič, ai tempi appena ventenne. Accusato di soddisfare con quel lavoro nevrotico e intellettualista solo i fini palati della borghesia capitalista, al compositore veniva intimato di ripensare ai reali bisogni del popolo, magari componendo canzoni patriottiche per i compagni in fabbrica. A un ingegnere dell’anima, così venivano definiti gli scrittori e gli artisti al servizio del regime, si richiedeva che la propria opera fosse sempre ispirata dai dogmi rivoluzionari. Lenin e Marx gli unici santini ammessi.
Barnes dà vita a un elegante romanzo biografico, rappresentando, a tappe, i momenti più drammatici del rapporto tra il compositore e il regime. In tal modo lo scrittore britannico realizza un’opera non soltanto incentrata su Šostakovič, il cui ritratto, appena accennato, diventa un pretesto. A Barnes infatti interessa tratteggiare il “rumore del tempo” di quegli anni in Unione Sovietica, quando a un’artista bastava aver incontrato una volta sola un presunto cospiratore per incappare nella censura e nei processi sommari che precedevano le purghe. Sullo sfondo la vita del grande musicista, un russo anomalo. L’immagine fornitaci da Barnes è quella di un placido genio dall’aria sommessa, un parco bevitore abbonato a donne estroverse, l’unico farmaco accettabile per i suoi attacchi d’ansia. Il testo non poteva essere completo senza la presenza di Stalin, la cui ombra viene avvertita dal lettore, pagina dopo pagina, con un costante senso di angoscia. L’uomo d’acciaio e le sue manie persecutorie. Quelle manie che lo portarono a deportare buona parte della sua famiglia in Siberia.
Šostakovič non fu l’unico bersaglio di Stalin. Altri ingegneri dell’anima erano stati presi di mira dagli spietati burocrati del partito, cani al guinzaglio dell’uomo d’accaio, pronti a lanciarsi in erudite critiche musicologiche o letterarie, a dispetto, sia chiaro, della totale incompetenza. Prokofiev, Bulgakov, Eisenstein furono alcuni tra i perseguitati. “Genio e malvagità non possono coesistere”, così Šostakovič rispondeva alle accuse rivolte a Stravinskij, reo di aver abbandonato il paese. Per l’apparato invece le due qualità costituivano un’endiadi inscindibile, un pericoloso cortocircuito che minava il fondamento del regime stesso: l’aspirazione alla mediocrità.
Nemico del popolo. Se Stalin avesse pronunciato quelle tre parole, e ci andò spesso vicino, Šostakovič sarebbe scomparso nel nulla. Tre parole e non avremmo avuto la Quinta Sinfonia. Il lavoro di Barnes è uno struggente monito sulla follia dei totalitarismi, una lucida memoria su quanto l’umanità sia stata vicina a non conoscere uno dei più grandi geni del ventesimo secolo. Un libro di fatto imprescindibile.
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