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Lettura che mi ha convinto soltanto in parte. Ci sono stati infatti capitoli letti senza problemi e altri per cui è stato molto difficile portare a termine la lettura.
Romanzo autobiografico molto scorrevole, si lascia leggere con estrema facilità e fa la spola dalla descrizione di una avventura nella provincia russa post-sovietica e la narrazione della sua vita personale nel rapporto con la sua compagna. Narcisista fino al midollo.
Carrere ha una prosa, per me affascinante, riesce a coinvolgere il lettore anche parlando di fatti squisitamente personali. Stimola la curiosità quasi voyeristica che c'è in ognuno di noi attraverso le sue descrizioni. In "Un romanzo russo" attraversa territori desolati della Russia che rispecchiano un po' l'inquietudine spirituale che caratterizza lo scrittore stesso. Nella sua miscela di fatti biografici, reportage e fantasia ci induce ad approfondire, a ricercare a studiare. Almeno per me è così.
Recensioni
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Ossessioni erotiche e tormenti familiari del vanesio Carrère
Un romanzo di oggi, alla Emmanuel Carrère ultima maniera, anche se lui a un certo punto, verso la fine, assicura di non scrivere un romanzo; uno di quei celebratissimi libri che – da Limonov in poi, almeno in Italia – hanno acquistato velocemente i contorni del “caso”, consolidato un pubblico fedele e fatto spellare le mani a buona parte della critica. Un romanzo russo (283 pagine, 19 euro) non è una novità, aveva già visto la luce con Einaudi nella traduzione di Margherita Botto, ma torna con Adelphi, casa editrice della svolta per lo scrittore francese in Italia, e in una nuova traduzione, firmata da Lorenza Di Lella e Maria Laura Vanorio.
Ossessioni erotiche, instabilità e imprevedibilità, tormenti familiari e fallimenti personali, anzi sentimentali, alimentano le pagine di Un romanzo russo. Il nonno georgiano di Carrère, Georges Zurabišvili, forse collaborazionista in Francia, scomparso misteriosamente a Bordeaux, dopo la fine della seconda guerra mondiale, sul cui passato indicibile la madre dello scrittore ha voluto far calare il silenzio è uno dei nodi da sciogliere. Lo scrittore lo rincorre, forse per esorcizzarlo, e intreccia la sua ricerca al consueto narcisismo e alla sincerità estrema, sciorinati soprattutto quando accende le luci sulla sua relazione con Sophie (della cui bellezza è fiero, pur vergognandosi del gap culturale e professionale), fra crudeltà, gelosie, volgarità e un racconto erotico che lo stesso Carrère le dedica e pubblica su Le Monde (a distanza di alcuni anni ha confessato il rimorso per averla tirata in ballo senza alcun consenso…).
Scavando chirurgicamente e ossessivamente nel passato l’autore s’imbatte in varie storie, in particolare quella della sua famiglia, su come dopo la rivoluzione russa sia arrivata a stabilirsi in Francia, e un videoreportage da realizzare, che lo spinge ad andare in compagnia di una troupe in un remoto paesino russo, Kotel’nic, per indagare la storia di un soldato ungherese, senza memoria, Toma Andràs, anche lui collaborazionista dei tedeschi, relegato in un ospedale psichiatrico per oltre cinquant’anni – abbandonato come un bagaglio smarrito che nessuno cerca – durante i quali non ha imparato il russo e ha solo farfugliato parole di una lingua incomprensibile.
È spietato il terapeutico gioco di mettersi a nudo, di raccontare, con lunghe parentesi personali, i propri fallimenti e la riconciliazione con le origini (e col nonno, difeso contro gli eccessi del politicamente corretto) e con la lingua russa (parlarla in modo corretto significherebbe intercettare pezzi della propria interiorità che ancora sfuggono a Carrère, «mi dico che scrivere in russo è come comprare il biglietto per dare a Dio la possibilità di salvarmi»), tra follia e paura, vanità ed egocentrismo, desiderio di indagarsi in profondità e liberarsi dai conflitti interiori. Di volta in volta l’autore dialoga con se stesso o con il lettore, si rivolge alla compagna, scrive alla madre, in un sottile gioco a incastri, che prevede un poco sottile e piuttosto struggente abbattimento dei muri fra vita e letteratura, senza che necessariamente certi fantasmi finiscano di tormentarlo.
L’equilibrio dell’insieme narrativo – cose piuttosto disparate e dai flebili legami, avvenute nel giro di qualche anno – è tutt’altro che perfetto. I rischi sono qualche eccesso di manierismo, qualche pagina erotica gira a vuoto, perfino lo sgambetto delle banalità che a volte va a segno. Nel complesso però Carrère è a suo agio in pagine che davvero si muovono sul solco della tradizione letteraria russa e che sono, in qualche modo, un autoritratto, pur se irrisolto e pieno di sbavature. Il finale è una lettera alla madre, Hélène Carrère d’Encausse, intellettuale di primo piano in Francia e protagonista sotterranea ma incombente del libro; libro che, confessa nell’ultima pagina, è come nuotare verso la madre, l’immagine di un ricordo d’infanzia che è efficace sintesi.
Recensione di Micol Treves
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