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Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2018
Indice
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
“Magari fossi stato il figlio di un uomo felice, che arriva alla vecchiaia con tutti i suoi beni, […] è scomparso nel nulla, ignoto, e ha lasciato a me pene e dolori…” Nella chiara identificazione di Matar come un moderno Telemaco, non si può che considerare quanto i classici avessero già compreso tutto, e a come la storia umana si ripete. “Il ritorno” si specchia nello stesso Mediterraneo de l’Odissea dandosi una sua struttura fatta di ricordi personali, di riflessioni intime, di pura cronaca e rimandi storici. E’ un racconto di vita vissuta nei decenni della dittatura di Gheddafi che, paradossalmente, raggiunge la linearità articolandosi attraverso una continua frammentazione temporale. Si capisce che il “ritorno” è un viaggio di ricomposizione che non può prescindere dal sentirsi spaccati in due, dall’affondare le mani nella memoria, oltre le difese, fino al centro del dolore per la perdita del padre e per il senso della sua mancanza; per l’impossibilità di un corpo da piangere e seppellire e o - ancor peggio - per l’incertezza che avvolge il destino del genitore. Una volta partito, Matar non potrà risparmiarsi nulla; nemmeno di guardare negli occhi la feroce arroganza del Tiranno, di misurarsi con la sua disumana scaltrezza. Malgrado tutto, non potrà non amare meno il suo luogo, la sua radice, che gli appartiene ancor più profondamente in quanto esule. Un auto-esilio, il suo, che può leggersi come la rescissione di un legame, quasi a voler compensare la mancanza del conflitto e della soluzione del conflitto con il padre, un padre eroe dissidente imprigionato dal regime. Si torna per cercare i pezzi mancanti e conoscere, si torna per riconciliarsi con se stessi, recuperare lo scollamento coi luoghi e con la propria storia sfuggita di mano, per rendere giustizia ai martiri, restituirgli la dignità…Non si dovrebbe mai partire o non si dovrebbe mai tornare: a iniziare da questa considerazione prende il via il viaggio di ritorno Matar che è molto, molto più r
Recentemente ho letto in un articolo che la storia si impara leggendo libri....ecco dopo aver letto questo libro posso pensare che sia vero....alla narrazione di questa lunga, impegnativa ricerca del padre, con uno svelamento profondo delle emozioni provate dal figlio che è anche l'autore del libro, si intreccia la storia della Libia più recente e l'inizio della dittatura di Gheddafi, la storia di una famiglia costretta a fuggire dal proprio paese, la vita in più paesi stranieri. Questa storia sfugge tuttavia ai toni con i quali siamo abituati a sentire o leggere dei paesi mediorientali, soprattutto dalle cronache e dagli articoli giornalistici, rende invece in modo pieno, disteso la vita in questi paesi, certo con i suoi drammi,le tensioni ma anche con gli aspetti di una vita fino ad un certo punto agiata e serena. Un libro che lascia la curiosità di esplorare nuovi autori non strettamente occidentali ma soprattutto nuove prospettive.
Il valore aggiunto di questo libro, il cui tema principale è il dolore della perdita del padre ed il dramma dello sradicamento per motivi politici, è duplice: 1° ho apprezzato la fame di cultura di quella famiglia, questo bisogno di conoscenza e di condivisione; 2°la storia d'Italia vista dall'Africa, a tratti affascinante, come la vicenda di Guido Ferrazza, a tratti orribile, come lo sterminio dei Libici, con tanto di lager, in epoca fascista. Mi ha messo la curiosità di leggere i libri di Alessandro Spina( libico con pseudonimo italiano) e di Knud Holmboe( unico reporter testimone dei campi di sterminio italiani)
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
In un film realizzato nel 2010, il cileno Patricio Guzman dava voce alle madri dei desaparecidos sotto la dittatura di Pinochet. Lo faceva dopo avere dedicato buona parte della sua pellicola, invece, alla natura: raccontando astri e terre, e galassie, e sconfinati spazi resi secchi dalle arsure di altipiani desertici. Chi ha visto il film non può dimenticare il dolore di quelle madri, i loro volti segnati, induriti. Donne resilienti. L'empatia del regista le aveva messe in condizione di raccontare la loro angoscia; e di lì, dalle loro confessioni, lo sprigionarsi di una forza. Il cuore del film (una storia di assenza, di vuoto di tracce) sta tutto nell'irruzione tardiva di quella forza – perché tardiva, sconvolgente.
Ho ripensato a Nostalgia de la luz, leggendo Il ritorno di Hisham Matar. Medesima lotta tra presa di coscienza e illusione, come accade con le perdite complicate dalla loro immaterialità (quando manca il corpo e niente può venire elaborato a partire da un rituale di sepoltura, tutto resta allo stadio di drammatica ipotesi circa un possibile altro corso degli avvenimenti, diverso, meno definitivo).
Il padre di Matar, Jaballa, attivista militante in prima linea nell'opposizione al regime di Gheddafi, è scomparso ventidue anni prima. Ora, nel 2012, il figlio, scrittore già noto, ritorna in Libia nel fermo proposito di fare luce sul passato. Elaborare: sebbene lui stesso non lo sappia sino in fondo, è infine maturo per farlo. Gestione di un lutto in absentia è processo raddoppiato, come raddoppiata è la perdita. Privi non si è soltanto della persona, anche della certezza della sua morte. La china dell' impervio cammino, Hisham Matar la sale senza infingimenti. Provvisto di una sana dose di amor proprio, anzi. Vigile su se stesso. Attento ai crolli psicologici, allo sfiancante oscillare tra consapevolezza e illusione, tra lucido convincersi che il padre sia morto, e un'altrettanto lucida intuizione che una speranza, perché non debordi trasformandosi in illusione, si deve saperla addomesticare. Vero narratore, sa come inanellare le volute di certi andirivieni della memoria. Fluente, chiara, la sua voce scivola in mezzo alle sponde del ricordo (immagini del padre sparito, testimonianze di chi lo ha conosciuto) e istantanee della terra “color ruggine, giallo e verde” che è stata quella dei paesaggi d'infanzia.
Jaballa è morto nella prigione di Abu Salim, nell'atroce massacro (più di mille prigionieri torturati e uccisi) che Gheddafi vi perpetrò? Sul filo d'acciaio di questo interrogativo, il libro scompone e ricompone un capitolo di storia, di resistenza, di passione di giustizia. Lo sguardo di Hisham Matar disseziona il nervo più scoperto delle cose, riemergendone limpido, con chiarezza puntato attorno a sé – sulla Libia, il suo paese, e su quel che del passato soffia nel vento presente. Il ritorno non è quello di Ulisse, ma di Telemaco, colui che mite, compassionevole, accoglie il padre, lo riabbraccia abbracciandone intanto il destino. Come un Telemaco contemporaneo, ripercorrendo le ombre della vicenda di cui è figlio, Matar nel mentre dipana gli orditi del passato dona un nuovo assetto alla sua propria vita.
Succede con certe narrazioni solide, mirabilmente compatte nonostante le molte diffrazioni del flusso temporale, che a prevalere sulla materia narrativa sia la forma del racconto. Qui trova parola quanto di più muto può accompagnare il tormento di un ricostruire in absentia. “Nel tempo, il treno dei miei tentativi di scoprire dove fosse mio padre ha continuato a sferragliare. Avanzava nel buio, senza cedimenti, e sempre più simile, col passare degli anni, a qualcosa che si nutre della propria bramosìa”. Di questa imperiosa, tirannica necessità di capire, conoscere, racconta Il ritorno. Lo fa con la precisione e la grandezza d'animo di qualcuno che sa come scandagliare i risvolti più chiaroscurali della propria urgenza di voler sapere. Incontri, memorie condivise, tentativi di chiarimento di livelli stratificati di fatti lontanissimi nel tempo ma sempre pulsanti nel cuore: l'indagine di cui il libro di Hisham Matar si compone ha qualcosa di un romanzo di formazione. Insieme al protagonista, a lettura ultimata ci sentiamo noi anche più maturi, e migliori. Pronti ad affrontare e osservare la vita con maggiore pienezza e attenzione, ora che l'arcipelago della perdita, lancinante ancora, perché più chiaro si è però configurato più sopportabile.
Lisa Ginzburg
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