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Anno edizione: 2002
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Novelle in buona parte filosofiche queste qui di celati, dove i personaggi vagando nel mondo meditano su alcune questioni fondamentali della vita : il dettaglio umano all'interno d'un immenso disegno dal centro vuoto. Dove si andrà a parare con tutta questa faccenda della vita, della riproduzione, della fine umana ? chi lo sa, le domande son le solite, ma il modo in cui gli animi arrivano alle domande è l'interessante della vita. Più che le risposte, qui a colpire sono l'assurdo d'alcune situazioni, i moti delle domande, le coscienze troppo sveglie che le pongono. Quattro novelle che dell'apparenza fanno la questione da risolvere, per finalmente approdare al terreno della coscienza, del risveglio, della fine. Libro dunque nuovo per celati, che più di ogni altro pone in evidenza alcune questioni che fino ad allora erano solo fugaci comparse nei suoi libri. Qui si fanno finalmente nodo, centro, tema.
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1987)
recensione di De Federicis, L., L'Indice 1988, n. 1
Sembra che non si riesca a parlare di questi ultimi racconti di Celati senza legarli alla raccolta precedente, i "Narratori delle pianure" di due anni fa, e senza ricordarsi del Celati d'una volta, l'autore di quattro romanzi di cui uno almeno, "Le avventure di Guizzardi", tra i più citati degli anni Settanta. È il segno di un disagio dei recensori, che tendono quindi a cambiare argomento? Di una debolezza del libro? O del fatto che viene naturale leggerlo all'interno di un percorso, di un progetto ampio di ricerca?
Conosciamo, grazie a qualche scritto di parsimonioso autocommento, le intenzioni di Celati e l'idea che egli insegue da tempo quasi di rifondazione del rapporto tra racconto e vissuto, finzione e vissuto. Ho detto racconto, finzione, perché queste sono le parole che gli piacciono, e non letteratura, perché fa parte delle sue intenzioni programmatiche uscir fuori dalla letteratura, o per dir meglio dalla miseria della letteratura, intesa in molti sensi: sia come cerimonia e uso ornamentale del linguaggio, sia come insieme di codici usurati dall'ovvietà, compresa l'ovvietà di operazioni sperimentali e d'avanguardia, smascheramenti, smontaggi, usi critici, ecc. Per distanziarsi dal letterario Celati negli anni Settanta aveva scelto la quotidianità di personaggi marginali, o comunque perdenti, il loro discorrere in prima persona, il loro logorroico raccontarsi e spiegarsi: la lingua bassa, lo sole espressionistico come modo di adeguamento a un vissuto patetico. Ma non è questa (il personaggio eccentrico, la trasgressione linguistica, la riproduzione del parlato) una tipica ovvietà dell'epoca? Diversa, e sorprendente, è l'ipotesi narrativa che Celati ha avanzato, dopo qualche anno di silenzio, con "Narratori delle pianure". La sorpresa non riguarda i temi, ma la tecnica del racconto. Scomparsa la straripante soggettività, vicende anche lunghe, magari di anni o di intere vite, sono concentrate con un procedimento fortemente selettivo in testi brevi; successioni di fatti vengono riferite in una lingua che è al massimo del contenimento e della semplificazione, in una sintassi rigorosamente regolare ed elementare. Celati ha eliminato l'espressività e appiattito il linguaggio sulla norma per dar risalto alla nuda sequenza dei comportamenti e degli avvenimenti. E all'incirca nello stesso periodo, interpellato sul senso della letteratura (per il convegno di Palermo, 8-10 novembre 1984), dichiarava: "a questo punto le apparenze, che sono il supporto della rappresentazione esterna, ci stanno a cuore più d'ogni interpretazione complessiva del mondo: infatti sono tutto ciò che abbiamo per orientarci nello spazio". La rappresentazione invece dell'interpretazione, l'esterno invece dell'interiorità, lo spazio invece dell'io; e una scrittura che vuole assomigliare alle fotografie dell'amico Luigi Ghirri: "... uno sguardo che non spia un bottino da catturare, che non va in giro per approvare o condannare ciò che vede, ma scopre che tutto può avere interesse perché fa parte dell'esistente".
È un programma falsamente semplice. Quanto più infatti le apparenze sono rappresentate senza giudizi e commenti, approvazioni o condanne, tanto più devono spiegarsi da sole e assumono sovrasensi simbolici. Rappresentare (scrivere) diventa un atto anzitutto mentale; esige un impegno accentuatamente teorico e tecnico, di natura speculativa.
Nelle quattro "novelle" appena pubblicate le ambizioni filosofiche si sono fatte esplicite. Ci sono anche altri cambiamenti e sviluppi che attenuano in parte la novità dei "Narra tori": le misure del racconto sono tornate più lunghe; l'azione è poca e le rapide, schematiche sequenze hanno lasciato il posto a pause e avvolgimenti descrittivi e riflessivi; la lingua ha un impasto lessicale più ricco e non rifugge dai toni alti e allusivi ("O grande città, passi inutili, o vie dell'infinito previsto!", p. 119).
Non è cambiata invece la poetica, che viene annunciata già in copertina. Le copertine dei due libri (molto attraenti, e ricavate naturalmente da foto di Ghirri) sono infatti parte integrante del testo: entrambe mostrano esseri umani di schiena (il contrario dell'uso e abuso corrente di facce, soprattutto facce d'autori e commentatori) n‚ giovani n‚ belli ma goffamente normali, che si rivolgono (e implicitamente invitano a guardare) verso spazi aperti, paesaggi vasti d'acqua o di montagna. La faccia non compare, l'io è diminuito, le figure appartengono alla spazialità. Sono questo le apparenze? Sono unicamente ciò che è riducibile all'esperienza dello sguardo? Vorremmo saperne di più. Ma le novelle "sulle apparenze", pur essendo popolate di personaggi che continuano a osservare e a interrogarsi, non danno in proposito risposte univoche. Sembra in qualche momento di poter concludere che la "commedia delle apparenze" è la messinscena del vivere sociale in cui tutti agiamo come controfigure di noi stessi; in altri momenti però la muta apparenza coincide con la forza dell'esistente, contro altre vanità e velleità. È certo che l'apparenza non rimanda a una realtà, la rappresentazione non rimanda a un significato, i racconti non danno soluzioni che non siano ambigue e Celati non cede alle insidie dell'interpretazione.
Che queste novelle siano noiose, come qualcuno ha già detto, può essere vero. Non fanno venir voglia di leggerle d'un fiato, ma piuttosto di fermarsi qua e là, e rileggere. A me pare importante, anzi affascinante, il loro modo di ridare intensità alla parola attraverso un procedimento di riduzione che lascia molto al non detto. E non so quanti altri scrittori siano in grado oggi di cogliere la mutazione della nostra cultura come riesce a fare Celati con la strategia dell'impassibile rappresentazione di strade trafficate, insegne pubblicitarie, villette "geometrili" di provincia o paesaggi metropolitani ("Sul quai dell'Hotel de Ville da lontano i lampioni avevano un alone rossastro, ma da sotto la luce diffusa spandeva colori freddi, dall'azzurro all'indaco. Le macchine arrivavano a gran velocità verso il ponte e tutte sembravano avere una direzione precisa; lontano s'è sentito il grido a due note di un'autoambulanza e sul marciapiede nessuno s'è sorpreso; ho visto una donna che ha alzato un braccio e un taxi s'è fermato proprio davanti a lei; due ragazzi hanno attraversato la strada di corsa e uno ha perso una scarpa", p. 122).
Dei quattro racconti il primo, "Baratto", è forse il più comico, di quella comicità -situazioni assurde e personaggio inconcludente - che Celati predilige. Narra di Baratto, insegnante di ginnastica e giocatore di rugby, che durante una partita s'arrabbia, va negli spogliatoi, si siede su una piccola panca, perde l'equilibrio, cade, e perde la voglia di parlare: ricomincerà dopo molti mesi, durante i quali, limitandosi a vivere e a guardarsi attorno, si è però affrancato da ogni obbligo (perché la rinuncia a parlare è un comportamento fondamentalmente eversivo).
Il secondo racconto, "Condizioni di luce sulla via Emilia", è il più descrittivo. Un vecchio pittore d'insegne Emanuele Menini, è ossessionato dalla "disfazione" della luce, l'offuscarsi dei contorni, il tremolio dell'aria per il ristagno di fumi e vapori nella pianura (morirà però dopo aver scoperto i contorni esatti, l'aria pulita di una misteriosa palazzina identica tuttavia a mille altre: in "stile geometrile", con i vasi di fiori disposti accanto all'ingresso, ecc.). Il terzo, "I lettori di libri sono sempre più falsi", mette in gioco direttamente con ironia parodia e sarcasmo, la letteratura e la lettura con i loro riti: il convegno, il dibattito, la critica, la recensione, la stroncatura, ecc. (ma termina con un'ambigua dichiarazione di fede nelle parole, che celebrano l'insostanziale: "Eppure quelle parole sono là, anche loro comparse nel vasto mondo come i lombrichi nella terra", p. 95). L'ultimo, "Scomparsa di un uomo lodevole", narra dei rapporti tra padre e figlio. È scritto dal punto di vista del padre, in forma di lungo monologo, e contiene pensieri terribili. Ma è anche il più divertente e penso che sia piaciuto a tutti. È così credibile la costernazione con cui quest'uomo lodevole le guarda il figlio, la "bestia giovanile" che s'incanta contemplando le cromature brillanti d'una moto Yamaha, è così riconoscibile, familiare, la sua richiesta di un significato nella vita, la sua protesta perché Dio deve aver cambiato senza farglielo sapere le carte in tavola, da darci lì per lì l'impressione che Celati abbia deciso di parteggiare (per i padri) e denunciare (l'irrealtà, l'insignificanza quotidiana). C'è invece un trucco. Infatti l'uomo lodevole, che non sopporta chi non ha una meta precisa, risulterebbe quasi subito insopportabile ("Sono io forse uno qualsiasi?") se non volesse infine scomparire: mettersi alle orecchie il walkman del figlio e andarsene, in coppia e senza meta, "sentendosi finalmente per qualche motivo simile agli altri, e come gli altri sulla rotta d'un ignoto avvenire dell'innocenza".
E chi non lo vorrebbe?
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