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Anno edizione: 2017
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Da tempo, Carrere è stabilmente tra i miei preferiti. Eppure qualcosa qui non mi persuadeva. Una serie di articoli scritti in tempi diversi, su vari argomenti, raccolti insieme senza un filo conduttore, legati solo dalla medesima paternità? Mah… mi sembrava una furbata, un’operazione editoriale. Eppure, qui non solo ho ritrovato il Carrere di sempre, ma una delle sue espressioni più folgoranti. Lucido, caustico, chirurgico, affabulatorio come non mai. Insomma Carrere all’ennesima potenza. O meglio, tutto Carrere in tanti piccoli pezzi. Ancora, un Carrere caleidoscopico. Tra queste pagine gli embrioni di alcuni dei suoi romanzi, le idee e gli accadimenti che li hanno generati e quelli che, invece, hanno interrotto la nascita di nuovi, rimanendone solo gli spunti narrativi. Tra le schegge affilate di questo Carrere multitasking, segnalo “Nove cronache per una rivista italiana”. Nove brevi articoli che avrebbero dovuto fornire al lettore, almeno nelle intenzioni dell’editore, uno sguardo sul mondo femminile, “diciamo sui rapporti fra uomo e donna, ma scritto da un uomo e letto, in teoria, soprattutto da donne” (cit). Figuriamoci. Per lui, Carrere, uno spasso. Un bambino che sguazza libero e felice in una pozza. Per noi altri lettori, una delizia, una giostra che vortica sospesa, sempre più pericolosamente, tra amore e innamoramento, erotismo e pornografia il cui centro gravitazionale, ovviamente, è sempre lui, il più adorabile dei mascalzoni letterari. Del resto già la copertina è o no, una inequivocabile dichiarazione d’intenti.? Chi altri, se non lui, avrebbe avuto la sfrontatezza di stamparci sopra un proprio ritratto?Inutile nasconderlo, questo è certamente il più egoriferito tra i suoi libri, perciò se siete tra quelli cui, proprio per questo, non piace Carrere, qui non troverete argomenti che vi faranno cambiare idea ed anzi ne avrete di ulteriori per rinsaldare il vostro giudizio. Dispiace, per voi. Per tutti gli altri, vale esattamente l’opposto.
Un serie di scritti, articoli et similia che non fa altro che confermare il mio sconfinato amore per questo grandissimo, unico autore. Molti si lamentano della sua "autoreferenzialità", che è proprio ciò che mi piace più del suo stile, se così non fosse non sarebbe Carrère, o lo si ama o lo si odia. Consigliato a tutti quelli che come me hanno letto e amato anche altro dello stesso autore, troverete tantissimi riferimenti, e da sempre un certo piacere sentirsi scovarli e comprenderli.
Troppo autoreferenziale questo Carrère, troppo compiaciuto della sua intelligenza, della sua bravura, della sua cultura. Sì, bravo, sì, intelligente, sì colto. Ma ora raccontaci qualcosa che non sia incentrato su di te!
Recensioni
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“L’obiettività non è granché”, dice Carrére. Una premessa del genere, per uno scrittore avvezzo alle biografie e ai reportage, sa di provocazione bella e buona. Eppure, a ben vedere, c’è un fondo di verità in una affermazione tanto radicale. Il francese infatti sostiene che fondare un racconto biografico su un approccio soggettivo sia un atto di modestia. Allo scrittore è concesso un solo sguardo, il proprio. Chi si reputa super partes pecca in realtà di presunzione. Non esiste evento capace di essere reso da un occhio obiettivo. Comunicare con il “vero” non è infatti prerogativa umana.
Lo sguardo dell’autore de “Il Regno” proietta un effetto distorcente, forse capace di alterare la realtà, ma è indiscutibilmente unico, perché nei paraggi non vi è nessun altro in grado di scrivere reportage e biografie tanto personali quanto quelle di Carrére. “Biografia personale” suona paradossale, o almeno una contraddizione in termini, eppure non vi è altro termine capace di sintetizzare i lavori del francese.
Immancabilmente nel raccontare le vite altrui Carrére racconta sé stesso al momento dell’indagine. La biografia, che sia quella di un celebre scrittore di fantascienza, di un controverso poeta russo o di un infanticida, si trasforma in auto-biografia. Sembra un segno di incurabile narcisismo e di autoreferenzialità, e forse in fondo lo è, ma nel procedere in tal modo Carrére ci restituisce per intero il rapporto dialettico tra scrittore e oggetto di indagine. Un approccio che l’autore non ha certamente inventato. Basti pensare a Capote e al suo seminale “A sangue freddo”, in quest’opera omaggiato del capitolo migliore, forse il più esegetico, termino tanto caro a Dick, altro eroe di Carrére.
“Propizio è avere ove recarsi” alla fine è una raccolta dei reportage giornalistici che hanno reso celebre Carrére negli ultimi venticinque anni, eppure, terminato il libro, la sensazione di aver letto altro ti rimane appiccicata addosso ed è difficile da esprimere. Non dubitiamo che sia l’autore stesso ad aver pianificato un eventuale smarrimento del lettore. Del resto è chiaro che avere dove andare è propizio soprattutto per chi non sa dove sbattere la testa.
Recensione di Matteo Rucco
La cosa più semplice e vera da dire su Propizio è avere ove recarsi di Emmanuel Carrère (Adelphi, trad. Francesco Bergamasco) è che è magnifico.
Prima di comprarlo ho letto una recensione, con occhio molto rapido − le recensioni spoilerano e mi annoiano −, cercando LA frase (ogni recensione ha UNA frase, e di solito corrisponde a quello che vuoi sentirti dire). Se anche voi cercate qui LA frase − mi rendo conto non sia granché − la trovate proprio all’inizio, e ve la ripeto: P. è meraviglioso, leggetelo. È una raccolta di saggi (più che altro una raccolta di storie), e questo rende plausibile la similitudine con un album: è come quei rari dischi dove tutte le tracce sono la canzone che ascolteresti sempre, e non ci sono pezzi riempitivi.
Questo ci porta a un altro punto: l’ordine di lettura. Le tre persone là fuori a cui piacciono i saggi (io non sono tra queste) in genere ne apprezzano la versatilità: skippano, si fermano, riprendono, tornano indietro. In breve: si creano il proprio percorso di navigazione tra i capitoli, libertà che il romanzo non concede. P. sembra permettere questo tipo di “zapping”: tutti i (singoli) pezzi sono stati a loro tempo pubblicati su quotidiani o riviste, e in più sono molto corti (20 facciate max.); potenzialmente siamo di fronte a un vero libro a buffet. Eppure, sarà una banalità, la disposizione data dei brani crea un bilanciamento perfetto tra gli ingredienti: ci sono dei filoni tematici che non si accalcano ma punteggiano tutto il libro, scompaiono e poi tornano, e quando uno è sul punto di averne abbastanza della Russia post-comunista, ecco che la Russia post-comunista fa posto alla cronaca giudiziaria, e torneremo a leggere di Russia solo quando ci mancherà. (Ci sono anche cose come introduzioni di libri, lettere ad amici o ex amici, idee per film mai realizzati, teorie sulla non-fiction). P. prosegue come un romanzo che presenta i suoi protagonisti uno a uno e vi torna periodicamente, ma il tutto è condito con un nuovo tipo di libertà-da-raccolta-di-saggi che vedremo tra poco.
LA frase della recensione che ho letto prima di comprare P. era più significativa della mia (la riporto come la ricordo): è un ottimo libro da cui partire se non si conosce Carrère, perché ricorrono − in germe − parecchie delle fissazioni che sono poi diventate i suoi libri. Un bigino di Carrère, insomma: molto bene, era quello che volevo sentirmi dire. (Calma: secondo una stima a spanne, il 90% del materiale risulterà nuovo anche a chi si è letto tutta la bibliografia; quel 10% consideratelo back-stage). (…)
Chiudo con un brano, naturalmente. Qui Carrère parla dello scrittore di non-fiction, che deve sempre sostenere un rapporto umano con il protagonista del suo libro (cioè il tizio, reale e vivente, di cui scrive la storia). Sta gentilmente criticando chi crede che la natura di questo rapporto debba essere per forza disonesta, del tipo: conosci il tizio, gli fai credere che può fidarsi di te, gli freghi la storia, fuggi:
Personalmente ritengo che esista un limite, e che questo limite non marchi, come a taluni piace credere, la differenza tra lo status di giornalista − frettoloso, superficiale, privo di scrupoli − e quello di scrittore − nobile, profondo, tormentato dagli scrupoli morali −, ma tra gli autori che credono di essere al di sopra di ciò che raccontano e quelli che accettano la scomoda idea di esserne parte in causa.
Recensione di Alessandro Lusitani
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