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Antonio Prete nella prefazione afferma che secondo Bonnefoy la poesia ha il compito di dispiegare il visibile (l’immagine, in tutte le sue declinazioni) alla luce della parola, avvicinandosi al respiro delle cose, al loro mostrarsi nella nudità, e facendole parlare. Si accosta in tal modo alla visione bloccata ed eternizzata della fotografia. “Le grandi questioni che attraversano tutta la scrittura di Bonnefoy, l’assenza e la presenza, la parola e l’immagine, lo sguardo e il visibile, la singolarità irripetibile del vivente e il caso, l’istante e il fuggitivo tornano e si riformulano intorno a quella vita particolare del soggetto e del mondo che sta nella fotografia”. La precisione nella rappresentazione dei dettagli, offerta per la prima volta dall’invenzione di Daguerre a metà ’800, rivoluzionò il modo di raffigurare la realtà anche nella pittura e nella scrittura. Bonnefoy innesta la riflessione sull’origine della fotografia nel commento a Igitur, un testo di Mallarmé che narra l’esperienza orrifica di una notte trascorsa a meditare sul vuoto, il nulla, l’assenza, lo scorporarsi delle apparenze. Il poeta simbolista tentava di perseguire la bellezza attraverso un susseguirsi di “distruzioni” di ogni forma di sapere e di illusione, compresa quella di Dio, per ridursi alla pura coscienza del sé materiale. La cancellazione radicale di ogni concettualizzazione e verbalizzazione, restituiva così alle cose e al mondo oggettivo la loro positiva evidenza, “nel loro esserci sensoriale più immediato, più pieno”. Poesia e fotografia, ciascuna con i propri mezzi espressivi, possono mostrare, nello sfondo oscuro del senso, il lampo di una presenza, la concretezza di un particolare, l’ossessione di un volto, anche quando vengano subito riassorbiti dal buio del giorno e della memoria. “La fotografia è pericolosa. Il moltiplicarsi all’infinito delle fotografie che colgono solo il fuori della vita può contribuire alla fine del mondo”, commenta Bonnefoy.
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