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Anno edizione: 2013
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Vincitore premio Pulitzer per la narrativa 1998
Un libro che demolisce ogni stereotipo sulla grandezza dell'America e getta una luce sinistra sui suoi valori fondanti. La guerra, la famiglia, il fanatismo, la crisi, sono raccontati da Philip Roth con profondo acume. Un libro che è stato definito da tutti "Il grande romanzo americano". E lo è.
«"Pastorale americana" è un romanzo di quattrocento pagine che finisce con un punto interrogativo. Questo è ciò che lo rende grande?» – The New Yorker
Seymour Levov è alto, biondo, atletico: al liceo lo chiamano «lo Svedese». Ebreo benestante e integrato, ciò che pare attenderlo negli anni Cinquanta è una vita di successi professionali e di gioie familiari. Finché le contraddizioni del conflitto in Vietnam, esplose negli Stati Uniti, non coinvolgono anche lui, e nel modo più devastante: attraverso l'adorata figlia Merry, decisa a «portare la guerra in casa». Letteralmente. Ma Pastorale americana non si esaurisce nell'allegoria politica; è un libro sulla vecchiaia, sulla memoria, sull'intollerabilità di certi ricordi. Lo scrittore Nathan Zuckerman, fin dall'adolescenza affascinato dalla vincente solarità dello Svedese, sente la necessità di narrarne la caduta. E ciò che racconta è il rovesciamento della pastorale americana: un grottesco Giudizio Universale in cui i Levov, e i lettori, assistono al crollo dell'utopia dei giusti, al trionfo della rabbia cieca e innata dell'America.
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Da leggere
L’autore con questo libro racconta la fine del sogno americano tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Non è solo un romanzo, in quanto a tratti sembra di leggere un saggio di sociologia. In numerose pagine, infatti, le vicende dei personaggi non sono altro che un pretesto per l'autore per descrivere la società nel periodo in cui è ambientata la storia: il mondo del lavoro, dei costumi e delle consuetudini sociali della borghesia americana. Più di tutto rivela come la presunta sicurezza di possedere quanto ha questa famiglia della “middle class” agiata e senza problemi (il capofamiglia è il proprietario di una fabbrica di guanti che sposa la vincitrice di un concorso di bellezza), che possiede i beni con la superba convinzione che tutto questo sia a loro dovuto ed intoccabile, diventa invece estremamente illusoria, in quanto basta la più lieve fluttuazione delle circostanze e del caso per sovvertire quello che, forse per personale e disperato bisogno, si riteneva essere l'ordine stabilito (nella fattispecie, dalla figlia che diventa terrorista ed assassina). Il difetto del libro è che la parte sociologica finisce per rendere la prosa alquanto lenta, priva d'ironia, il tutto per dare maggiore spazio all'approfondimento della psicologia di ognuno dei personaggi, mettendo in luce le loro incoerenze, le loro ipocrisie e le loro fragilità.
Si dice spesso che "i soldi non fanno la felicità" e sembra proprio la sintesi perfetta di questa storia ebraico-borghese-americana. Come sempre Roth sfodera pagine magistrali e la tematica è di sicuro impatto. Bello sì! Da olimpo dei libri forse no. A mio avviso l'autore è riuscito più efficace in altri libri più concisi. Comunque da leggere!
Recensioni
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"La vita di Ivan Il'ic, scrive Tolstoj, era stata molto semplice e molto comune, e perciò terribile. Forse. Forse nella Russia del 1866 [...] La vita di Levov lo Svedese, per quanto ne sapevo io, era stata molto semplice e molto comune, e perciò bellissima, perfettamente in linea con i valori dell'America."
Philip Roth è uno scrittore entrato ormai "nella leggenda", i cui romanzi hanno in qualche modo influenzato più di una generazione e fatto scoprire una certa mentalità americana a chi, specialmente negli anni Settanta, sognava gli Stati Uniti, mitizzando una società che poi così ideale non era e non sarebbe mai stata. Il fatto che appartenga a quella fascia di popolazione americana di origine ebraica non è marginale, è infatti un fattore tutt'altro che secondario nelle sue opere. Anche in Pastorale americana i protagonisti sono ebrei e vivono in un quartiere popolato prevalentemente da ebrei. È l'affresco di un ambiente borghese, metropolitano. Quel mondo che abbiamo imparato a conoscere negli anni: con ironia, grazie ai film di Woody Allen, a Lenny; con drammaticità con altri come l'Uomo del banco dei pegni, e così via.
Pervade l'opera quella difficoltà che caratterizza ormai i rapporti tra le persone, se si esclude una forma di relazione formale e menzoniera in cui tutto è narrato come si vorrebbe che fosse, oppure è taciuto. Ma il romanzo è anche lo spaccato di un momento storico che toccò tutta la società americana, coinvolgendo ogni strato sociale e ogni gruppo etnico: gli anni che impegnarono lo Stato nella guerra in Vietnam. Queste le componenti che incidono maggiormente sulla vita del protagonista, Seymour Levov, di origine ebraica, ma detto lo Svedese per il suo aspetto fisico. E "ordigno dirompente" nella sua vita sarà la figlia Merry che, proprio negli anni del Vietnam, diventerà militante e terrorista, sbalzando fuori lo Svedese dalla "tanto desiderata pastorale americana" e catapultandolo "nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell'innata rabbia cieca dell'America". Tutta la storia è narrata dal tradizionale alter ego dell'autore, Nathan Zuckerman, attraverso una analisi complessa dei fatti e dei comportamenti che devia il romanzo verso una sorta di psicoanalisi della società americana contemporanea.
Roth è un uomo complicato, che afferma di scrivere con difficoltà, con fatica. "Adesso vivo completamente isolato nel Connecticut" racconta in un'intervista a Fiamma Arditi per La Stampa "Ogni tre settimane vengo qui a New York per vedere delle facce. D'altra parte il mio lavoro richiede isolamento. Non c'è dubbio che mi manca qualcosa. Ma se ti concedi alla tua vocazione, inevitabilmente devi fare delle rinunce." Rinunce che "fruttano" un capolavoro ogni due anni circa.
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