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recensione di Boatto, A., L'Indice 1996, n. 2
Lo "spregiudicato" Arbasino è scrittore di molte e non affatto "piccole virtù". Per di più rare tra i letterati italiani, sedentari per inclinazione, riparati da una forte ideologia preferibilmente dogmatica e attaccati come molluschi alle proprie cattedre universitarie. Le "grandi virtù" di Arbasino si chiamano curiosità instancabile, disponibilità antiaccademica, assenza di remore ideologiche e mobilità. Dotato inoltre di una virtù che condivide solo con i santi e che non viene tenuta per nulla segreta: l'ubiquità. Arbasino è in grado di leggere simultaneamente tutti i libri, di frequentare le prime teatrali che si danno nel corso della medesima serata e di visitare contemporaneamente una serie di gallerie e di musei. La sua scrittura è pari alle sue qualità.
Costruita in sequenze di lunghi periodi, divisi da parentesi saporose dove l'autore si sporge come un arciere per lanciare le sue frecce micidiali, la scrittura di Arbasino contamina, paragona, avvicina. Il suo confessato modello stilistico è costituito dal pastiche, già praticato dal momento in cui si è messo a scrivere e, quindi, dotato di un'anzianità quasi quarantennale. Il pastiche, tra gli altri suoi effetti, porta a sdrammatizzare, a ridurre, a sgonfiare: per questo, la mobilità di Arbasino conta pur sempre su un paio di punti topografici fissi. Tra i più importanti spiccano la cucina, il gabinetto e la portineria: tre luoghi dove il "basso" impedisce qualsiasi intrusione dell'"alto" e dove il pastiche è libero di sfrenarsi.
Per tutte queste riunite virtù, pochi scrittori italiani come Arbasino sono adatti a cogliere un clima, una situazione culturale. Soprattutto nel momento della crisi, nel tempo del declino: il pastiche lavora meglio col vecchio che col nuovo. Le veloci e disparate annotazioni, l'attenzione a larghissimo raggio, diciamo pure l'accumulo e la dispersione, finiscono per fissare una stagione, una transizione significativa.
In ""Parigi o cara"" è la ville lumière a cavallo degli anni sessanta, fatta di svariate e lontane primavere ed estati, fra la primavera del 1956 e l'estate del 1961, per spingersi fino a un solo inverno, quello del 1961. È una Parigi su cui plana l'ombra sublime ma pur sempre tetra di Port-Royal - non per nulla Montherlant sta replicando alla Comédie Franèaise il suo eloquentissimo dramma sui confratelli giansenisti.
Nel processo della decolonizzazione del vecchio Impero ci troviamo solo a metà del guado (del pantano): l'Indocina è stata liquidata nel 1954, ma l'affaire algerino si va "incancrenendo". Finché De Gaulle, tornato al potere nel 1958 in seguito al putsch dei generali di Algeri, cambia le carte in tavola e conclude tutta la questione quattro anni dopo. Nel mondo della cultura, sono gli anni dei molti e incrociati tramonti: tramonto di Sartre e del "sartrismo"; tramonto del "mostro sacro", della figura del grande scrittore che vengono sostituiti dai "tecnici", dagli "sperimentali" anche nel settore della pura invenzione, nella linguisti-ca, nelle scienze umane e nella narrativa con gli autori del nouveau roman.
Ma per fortuna, per il giovane Arbasino che sta bazzicando come studente le aule di Sciences-Po, e per fortuna anche di noi lettori, "monstres sacrés" sul pendio della scomparsa e giovani "tecnici" a caccia del successo parlano, ricevono, discutono, frequentano caffè alla moda e locali equivoci. E scrivono anche. Più che altro sui giornali e nelle riviste. Sono gli anni del molto seguito "Bloc-notes" di Mauriac e della fioritura di numerose riviste, fregiate immancabilmente dall'aggettivo "Nouvelle". Se la collaborazione ai quotidiani indica la prevalenza dei problemi politici, l'inflazione delle riviste denuncia l'ossessione esclusiva per la teoria. (Ma non molto tempo dopo, l'ermetismo e il Mallarmé di Sollers e di "Tel Quel" verranno barattati rapidamente col "libro rosso" di Mao Tze-tung). Insomma, la loquacità sta simulando una società letteraria che non esiste o, molto più concretamente, sta anticipando la violenta intrusione dei mass media anche nello spazio tendenzialmente chiuso della cultura francese.
Arbasino attraversa tutta questa loquacità con la disinvoltura del classico pesce nell'acquario e la trasforma intelligentemente in un vivace, interessante e bizzarro teatro. Mostri sacri e aspiranti celebrità ne sono i protagonisti molto caratterizzati e diversi l'uno dall'altro. Gli appartamenti, i caffè e le redazioni apprestano le mobilissime quinte, mentre gli amici sapienti e pettegoli che Arbasino incontra attaccati ai bordi della piscina Deligny compongono una sorta di coro informatissimo. I preziosi amici in costume da bagno si trasformano anche in premurosi consiglieri che guidano Arbasino nel labirinto, pieno di morbidi trabocchetti, del mondo letterario d'antan.
Nel teatro di ""Parigi o cara"" Arbasino si assegna unicamente la parte del testimone, attenendosi a due opposte modalità. Della prima possiamo sbarazzarci facilmente: è quella del testimone muto, più impersonale di un registratore meccanico. La conversazione politica con Raymond Aron ne è un esempio, ma anche i colloqui con Simenon e con Henry Miller, malgrado le più rosee aspettative di tutti, compreso Arbasino. La seconda, la centrale e la maggiormente produttiva, è la parte del testimone che può mimare, nella sua scrittura e pure nel suo comportamento, la grande vivacità e presenza del suo illustre interlocutore.
Sovrasta così la scena un quartetto di autori diversissimi: Mauriac, Green, Cocteau e Céline. Mauriac, che in quella stagione è preso solo dalla politica, recita, o gli viene fatto recitare, la parte del "padre burbero". In Julien Green, altro scrittore cattolico, che si dimostra reticente, si sottrae come un soffice gattone, non parla e, ancor meglio, finge di non parlare, ritroviamo l'"anima falsamente bella" del teatro del suo confratello Mauriac. Arbasino si reca a visitare il Docteur Destouches, alias Céline, nella povera e sporca casa di Meudon, e ci restituisce, più ancora che il tono, la cupezza e il peso dell'uomo che sa di avere perso, ma che è anche consapevole di aver inventato un nuovo stile narrativo. Tanta cupezza spinge Arbasino ad aggiungere con delicatezza un suo commento personale, ma scritto quasi quarant'anni dopo, in occasione di una nuova visita alla casa di Meudon, quando Céline è ormai scomparso anche da troppo tempo. Cocteau, inquadrato in un piccolo appartamento parigino, è ancora, a sessantasette anni suonati e accademico, il protagonista brillante e discolo della grande commedia della letteratura del Novecento. Capace, una volta di più, di scoccare alcune frasi precise e fulminanti, e ancora del tutto attuali: "Oggi si interroga la Stupidità in pubblico, ed essa concede interviste". Si rivolge a tutti e scandisce: "Oggi la Stupidità pensa".
""Parigi o cara"" è il primo libro di cronaca e di viaggio pubblicato da Alberto Arbasino nel 1960. Pensavamo di scoprire la sua formazione, quella di un giovane autore che sta fabbricando gli strumenti, le astuzie e i trucchi e invece incontriamo uno scrittore già perfettamente compiuto. Già alla fine degli anni cinquanta Arbasino non leggeva, ma rileggeva. Aveva già letto tutti i libri.
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