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L' opera in versi e in prosa. Poesie-Trucioli-Fuochi fatui-Cartoline in franchigia-Versioni - Camillo Sbarbaro - copertina
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L' opera in versi e in prosa. Poesie-Trucioli-Fuochi fatui-Cartoline in franchigia-Versioni - Camillo Sbarbaro - copertina
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Descrizione


Quando nel 1985 apparve la prima edizione di questo "tutto Sbarbaro" a cura di Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller, l'eco critica fu viva: l'opera poetica sbarbariana, che si poteva finalmente esaminare nel suo insieme, si confermava tra le fondamentali del Novecento. Aveva visto giusto Boine quando dalle colonne de "La Riviera ligure" aveva salutato in "Pianissimo" "una di quelle poesie su cui i letterari non sanno né possono dissertare a lungo, ma di cui si ricorderanno gli uomini nella vita loro per i millenni". Dopo Boine per i versi, fu Montale a giudicare nel 1920 la prosa di Sbarbaro nei "Trucioli", quel suo stile "di timbro inimitabile che si fa intendere anche attraverso il coro di cento altre voci".
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paperback 725 9788811669388 Ottimo (Fine).

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L' opera in versi e in prosa. Poesie-Trucioli-Fuochi fatui-Cartoline in franchigia-Versioni

Dettagli

1999
Tascabile
725 p., ill. , Brossura
9788811669388

Voce della critica


(recensione pubblicata per l'edizione del 1985)
recensione di Mengaldo, P.V., L'Indice 1986, n. 3

Confessiamolo. Un "tutto Sbarbaro" insieme ci rallegra e ci disturba come un atto non dovuto. Troppo ci eravamo abituati a leggere questo scrittore in smilze e raffinate plaquettes, preferibilmente all'insegna del pesce d'oro, e Ci pareva che questa sorte editoriale, e questo modo di lettura frammentario, corrispondessero intimamente alla signorile e snobistica sobrietà con cui l'autore in vita era venuto distillando i suoi rari scritti.
Ben venga comunque l'opera omnia, se avvierà un pubblico più ampio degli specialisti e amatori alla conoscenza di questo piccolo classico della modernità, saldamente riconosciuto come tale dalla critica (basti pensare alla presenza di "Pianissimo" nella benemerita collanina di poeti moderni commentati del "Saggiatore", accanto ad Apollinaire e Benn, Saba, Ungaretti e Montale). Di fatto, mentre alcuni testi poetici di Sbarbaro ("Padre, se anche tu non fossi" e "La bambina che va sotto gli alberi") godono di una notorietà quasi proverbiale, l'opera sua nel complesso rimane poco e mal conosciuta.
Sui criteri con cui è condotta questa raccolta non mi soffermerò. Avvertirò soltanto che essa contiene utilmente anche le versioni poetiche, dal greco del "Ciciope" e della scuola pitagorica e dal latino di Pascoli (queste particolarmente intense): non, ovviamente, le versioni in prosa, parimenti notevoli (in particolare quelle da scrittori consentanei come Barbey d'Aurevilly e Huysmans), che sarebbe molto opportuno studiare. Non riesco invece ad essere d'accordo con l'esclusione delle giovanili poesie "Resine", unico documento del tirocinio letterario sbarbariano: l'interdetto dell'autore cui si appellano i due curatori non mi pare possa valere post mortem e all'interno di un progetto di opera omnia, e del resto "Resine" era già stato ripescato, vivente Sbarbaro, da Falqui. Dunque, a far corona a "Pianissimo" (in duplice redazione, l'originaria del '14 e quella terminale del '60, generalmente peggiorativa), stanno l'unica poesia anteriore ammessa dall'autore, "Vo nella notte solo", e le successive di "Rimanenze" e dei "Versi a Dina"; quindi le prose "d'arte", "Trucioli" e le analoghe posteriori dai titoli ugualmente frammentistici e minimali (interessante auto-commento di Sbarbaro a p. 501, che li elenca e conclude: "Mi denigro o più umile è l'atteggiamento, maggiore la superbia?").
Nelle classificazioni degli storici della letteratura Sbarbaro è comunemente annesso al gruppo dei cosiddetti vociani, o con più precisa caratterizzazione stilistico-ideologica degli "Espressionisti" vociani (basti vedere l'antologia di Sanguineti). E invero non mancano le ragioni per questa etichettatura: dal risentito moralismo alla doppia gestione - con interscambi - della propria sensibilità poetica nei versi e in una prosa di frammento estremamente lavorata. Ma molti più sono i motivi di sostanza che convincono a tener distinto Sbarbaro dai vociani, con o senza il predicato dell'espressionismo. E intanto la mancanza in lui totale in poesia (discorso un po' diverso andrebbe fatto solo per i primi "Trucioli") dei connotati fondamentali dell'espressionismo vociano in fatto di stile e di rapporto con la lingua: cioè atteggiamento demiurgico, deformazione e violentazione della lingua, intensa e libera creatività verbale, energia muscolare dello stile. Sbarbaro, a differenza dei vociani tipici, non procede - soprattutto in poesia - per accumulo e fermentazione, ma per riduzione; le sue maggiori novità sul piano della lingua sono ancora, nell'ambito del lessico, d'ordine impressionistico (p. es. sostantivi frequentativi in - io), nell'ambito sintattico tendono a un'elegante sprezzatura prossima alle soluzioni "novecentistiche" e lontana dal martellato vociano.
Questo atteggiamento verso la lingua per cui, se violenza v'è, si tratta di una violenza controllata e sottopelle, "silenziosa e fredda" come avrebbe detto il contemporaneo Ungaretti (e non immune da risvolti psicologici masochistici) , corrisponde a puntino a quella che è la differenza delle differenze di Sbarbaro rispetto ai vociani tutti, e che investe la rispettiva idea di letteratura. Se Sbarbaro visse sempre da appartato, da non professionista della letteratura, in una solitudine in parte coatta in parte consapevolmente e snobisticamente coltivata, non fu per mere contingenze biografiche e caratteriali, ma perché - con una rigorosità che lo onora - mai credette alla letteratura come pronto intervento sulla realtà: fu dunque del tutto estraneo a quell'attivismo vociano di cui l'atletismo verbale è la controparte; e in questo senso non fu mai, neppure negli anni dieci, uno scrittore "d'avanguardia" (la complementare si può indicare nel fatto che il suo "moralismo" di stampo francese fu sempre privo di ambizioni e teorizzazioni "filosofiche"). In lui la nozione della poesia come atto antisociale, profondamente radicata nella modernità, conosce la versione forse più radicale, nel nostro Novecento, appena condita agli inizi di ingenue tinte meledettistiche comuni all'ambiente genovese (ma quanto più esibito il maledettismo di un vitalista nietzscheano come Campana).
E se è vero che, come i vociani maggiori, Sbarbaro giocò contemporaneamente sulle due tastiere della lirica e della prosa di frammento è anche evidente che qualcosa di difficilmente quantificabile ma di decisivo tiene le prosette dei "Trucioli" al di qua della vera e propria, accesa "prosa poetica" di Rebora, Boine, Campana (si ponga mente solo all'assenza di echi fonici vistosi, di rime, di misure versali celate). Sicché Sbarbaro, in modo meno appariscente ma altrettanto sostanziale di Cardarelli, attua già la divaricazione dell'osmosi vociana di lirica e prosa lirica, collocando la prosa su un piano più sapienziale e distaccato, a prudente distanza dai ribollimenti dell'io. Ed è per questo tra l'altro che la sua prosa successiva ai primi "Trucioli" può andare a raggiungere senza troppe difficoltà il gusto dominante nella prosa d'arte italiana fra le due guerre; ciò che agli autentici prosatori lirici vociani non sarebbe mai stato possibile (e lo dimostra il silenzio dei superstiti).
Infine, Sbarbaro si distingue dai vociani più rappresentativi (ai tre sunnominati si aggiunga Jahier) per l'assoluta assenza in lui di tratti stilistici rapportabili al futurismo. E anche da questo punto di vista l'astensione stilistica è spia ottima di qualcos'altro: vale a dire la totale estraneità di Sbarbaro alla ideologia futuristica (basti vedere il suo contropiede al mito positivo futuristico della città moderna, ereditato da altri vociani). Altre sono dunque - e non coi vociani più accesi - le vere parentele di "Pianissimo": col Saba di "Trieste e una donna", col Bacchelli dei "Poemi lirici" anche col Cardarelli dei "Prologhi"; e, s'intende, coi "liguri": ma piuttosto Ceccardi e Novaro che, per le ragioni dette, Boine.
È difficile sopravvalutare l'importanza storica di "Pianissimo". Che prima del "Porto sepolto" ungarettiano, e sopra una più quotidiana materia esistenziale, istituisce - possiamo ben dirlo - il genere novecentesco del diario lirico. E lo fa attuando una radicale prosaicizzazione del dettato poetico che, a differenza dei crepuscolari, non ha più bisogno di adibire la "prosa" a controcanto ironico ma, un po' come avviene in Saba, la assume naturalmente a voce recitante della vita sentita nella sua elementare dignità - e sia detto fra parentesi che questa estraneità alle movenze crepuscolari (se non forse appena nel tema della "rassegnazione") è un altro indizio della modernità di Sbarbaro, se tracce crepuscolari sono ancora vistose negli "Ossi di seppia". Naturalmente si tratta di intendersi sui limiti di tale prosasticità. Il cui strumento metrico non è già il "verso libero", ma un endecasillabo sciolto che a me pare di diretta origine leopardiana e che non è mai veramente "rasoterraÈ (come l'endecasillabo di Saba) - si pensi solo alla perentorietà degli incipit: ma realizza una sorta di compromesso fra l'esigenza di nudità e spoliazione e l'opposta spinta all'eloquenza, quell'eloquenza nel dire la negatività e la perdizione che è il primo lascito dell'altro maestro di Sbarbaro, Baudelaire.
Allo stesso modo l'estrema rarità di rime tradizionali è compensata, quando non da veri e propri motivi ritornanti (come nella celebre poesia al padre, inizio e fine), dalla frequenza di parole-rima, quasi sempre sostantivali: finestra, Dolore, lacrime, madre, casa e via dicendo, quasi trasformando un procedimento formale in un'indicazione segnaletica di temi dominanti. Poiché la poesia di "Pianissimo" è una poesia intensamente sostantivale: donde il perdurarvi dell'artificio simbolistico di munire di maiuscola gli astratti tematici ( Necessità , Vita, Desiderio , Morte, Dolore, Perdizione ecc.). Questa prevalenza della tematizzazione sull'ornamento può spingersi fino a creare un endecasillabo come il seguente, afono e referenziale: "e le necessità e le consuetudini" (p. 40).
Ho parlato dello sciolto sbarbariano come di una formazione di compromesso. Ma a tutti i livelli "Pianissimo" si impianta su contraddizioni, tentando di comporle: fra aridità e tentazione vitale (Luperini); fra autenticità e maschera, ipocrisia; fra partecipazione alla vita e distacco da essa come 1/2spettatoreÈ; fra lacrime e 1/2occhi asciuttiÈ; fra deiezione e orgoglio; fra un'atonia sentita come condanna e sentita come privilegio (Raboni). Siamo, ancora una volta, nella scia di Baudelaire. Ma queste contraddizioni non conoscono superamento, fuoruscita o mediazione in Sbarbaro, che si ostina a pronunciarle con tetro compiacimento. Da ciò quanto avvertiamo finalmente di chiuso e soffocante in "Pianissimo", e che va al di là della monotonia stilistica che l'autore ha certamente voluto e che dà al libretto la sua compattezza di diario (tono sempre uguale della dizione, costruzione di tutte le liriche sullo stesso schema: preludio che enuncia il tema, sviluppo del medesimo, chiusa che generalmente si ricollega circolarmente all'inizio, con conseguenti partizioni strofiche). Come ha osservato giustamente Fortini, nel libro è assente la dialettica: "Sbarbaro è subito al fondo; e di lì non si muove".
Per questo continuo a pensare che, se "Pianissimo" è l'opera storicamente capitale di Sbarbaro, i risultati più alti e liberi della sua poesia si hanno quando egli ha saputo uscire da se stesso e parzialmente dimenticarsi: nell'alacre impressionismo linguistico di "Rimanenze" (specie la splendida "Voze") dove l'esistenza si fa paesaggio, e nei "Versi a Dina", tutti bellissimi e semmai sminuiti soltanto da un sospetto di neoclassicismo, o cardarellismo. E se le prime sono l'anticamera dei più ventilati ossi montaliani, negli altri è già un sentore del decantato diarismo lirico del primo Bertolucci o del primo Sereni.
In verità lo Sbarbaro del dopoguerra, chiudendosi sempre più nel privato, in una solitudine senza protesta, si chiuse anche sempre di più nella letteratura, intesa un po' come ozio aristocratico, un po' come operazione taumaturgica. Ciò vale soprattutto per la prosa che, con l'eccezione dei primi "Trucioli", capaci di slarghi straordinari (come nel famoso "Spotorno, terra avara" di p. 141, fratello di "Rimanenze"), complessivamente regge male alla rilettura. Sbarbaro, "sazio di endecasillabi", vide in essa la "sua terraferma". In realtà è appena un isolotto. E bisogna dire che la lettura continuata cui questo volume induce non le giova, mettendone a nudo il manierismo, la pervicace stilizzazione del reale che perde via via gli elementi di petrosità scabra, quasi granulosità, e anche di deformazione grottesca che facevano la forza dei "Trucioli" '14-'18; e su di essa stinge ormai, ai nostri occhi, il colore generico della prosa bella fra le due guerre cui finisce per confondersi, più genere che specie (basta prelevare mosse sprezzate come "A mancar di parola, il primo è il sole", o "Corto, apoplettico di potere", con questa prevaricazione della trovata stilistica). Con ciò non dimentico tutto quanto continua a distinguere le prose sbarbariane dalle medie rondesche; e che il massimo avvicinamento apparente di quelle a queste, gli "Ammaestramenti a Polidoro", esibisce provocatoriamente come arcaismo fossile quella letterarietà che 1/2La RondaÈ pretendeva assorbire, riciclandola come nuova, e insomma dichiara maniera ciò che là posava a stile.
Ma congediamoci da Sbarbaro rileggendo uno dei momenti alti di questa prosa, il num. 17 dei primi "Scampoli": 1/2A volte, seduto di fronte a me, vedo il mio io che mi guarda senza voce; o in una stanza improvvisamente mi sento eguale a quel vestito appeso a quell'attaccapanni. / E se, illudendomi d'essere vivo, di là mi scrollo ed esco, avverto camminando il meccanismo del corpo, e, come caverna dell'eco, l'anima mi si riempie del frastuono della via. / Dura cosa non avere bisogni. È allora che si mangia senza fame, si trangugia vino e si mendica di postribolo in postribolo un poco di foia. Il mondo è limitato da un muro scialbo orribilmente vicino; e il nostro io ci fa ribrezzo vagamente, come il fantoccio la cui mano, sollevata, ricade. / Oh io voglio finalmente vestito di rosa tenero mostrarmi per le vie più affollate o commettere qualche freddo delitto!". Siamo ancora nel cerchio di quei pensieri esistenziali che avevano trovato la loro definizione pregnante in "Pianissimo", entro quel nodo di ignoranza e sapienza: sdoppiandosi, Sbarbaro riesce veramente ad essere ciò che stendhalianamente aveva dichiarato in una poesia: "come uno specchio rassegnato / che riflette ogni cosa per la via"; le cose, in cui ci alieniamo, ci rimandano il nostro ritratto.


recensione di Caproni, G., L'Indice 1986, n. 3

Un avvenimento editoriale. Così una purpurea fascetta sul riposante verde oliva della sovraccoperta si limita a definire, senza dar troppo fiato a superflue trombe, la raccolta in un unico volume, curato da Gina Lagorio e da Vanni Scheiwiller, di tutta l'opera in versi e in prosa di Camillo Sbarbaro.
Ammiro la discrezione (la sbarbariana "parcità") della casa editrice Garzanti (oggi che si fa il maggior chiasso per assicurare il "successo e lo smercio a un qualsiasi capolavoro stagionale), e quasi sarei tentato, fossi sicuro dell'amicizia della Musa, di comporre una Lauda in suo onore.
Invece non son nemmen tentato di scrivere una recensione all'altezza. È un compito che lascio volentieri agli esperti, i quali certamente non mancheranno, con tutto il loro attrezzatissimo laboratorio mentale, e tutti i loro impeccabili strumenti critici, di illustrare nel più ragionato dei modi l'importanza - e diciamo pure, proprio sul piano culturale, la grandezza - dell'impresa, anche se i loro elaboratissimi argomenti, ahimé, non contribuiranno forse a far sì che il libro vada a ruba, e a formar code davanti alle librerie.
Io mi accontento, restando nel privato, di festeggiare l'avvenimento, e di festeggiarlo così come lo avrebbe festeggiato Sbarbaro in persona, che a proposito di un mio articolo su di lui apparso il 3 marzo del '60 sul "Punto", così ebbe a scrivermi dalla sua Spotorno:

"Caro C, alla notizia, per l'impazienza son saltato sulla corriera per Savona dove all'edicola della stazione ho trovato il Punto (...) Un'ora dopo (comprati gli asparagi per festeggiare l'avvenimento) ri-ero sulla corriera a degustare la pagina "Tutta per me", centellinandola.
Lasciati ringraziare. Non so che si potrebbe dire di più e di più intimamente vero. Il filo d'oro di pietà scontrosa; l'inferno mio privato in cui mi scaravento... ecc. restano osservazioni fondamentali che nessuno ch'io sappia aveva fatto e, se non m'inganno su me stesso, esatte; comunque, ambite e confortanti. Una radiografa.
Due giorni prima Scheiwiller m'aveva mandato il numero di dicembre del "Mercure de France" con la scelta fatta dal Bigongiari di poesie d'oggi. Vi ho riletto l'ascensore travestito con rinnovato piacere (in due punti, poteva forse esser reso meglio) e il bellissimo " Interludio ". Poesia-poesia come, quando mancava, si diceva "caffè caffè". T'abbraccio. Tuo Sbarbaro."

Ecco. Per festeggiare non mi son comprati gli asparagi, ma mi son fatta un po' di pubblicità, e con quale firma!
Ma se la citazione vale a mettere a nudo tutta la mia invereconda immodestia, vale anche, credo, a mettere in luce l'innata modestia del più grande raccoglitore di licheni umani ch'io abbia mai conosciuto, specie se si pensa che dall'antologietta del "Mercure" (15 poeti, dal più anziano Saba al più giovane Pasolini) proprio lui, Sbarbaro (certo indipendentemente dalla volontà di Bigongiari), era rimasto escluso. Lo stesso Sbarbaro da tempo riconosciuto non solo come il maggior poeta del "gruppo ligure" (Boine), ma come il maggior poeta di quella forte "corrente linguistica" che - da me inventata negli anni '50 per trasformarsi subito in una comica "corrente linguistica" attraverso i relais dei meccanici ripetitori - sarà poi di tanta conseguenza nel nostro '900 poetico. (Quello stesso Sbarbaro, come dice meglio Pier Vincenzo Mengaldo, "che prima di Montale acquisisce la Liguria ai luoghi memorabili della poesia italiana, sempre irrobustendo l'idillio col senso linguistico dello scabro e dell'essenziale").
Alt. Ciò che penso della figura di Sbarbaro l'ho già scritto più d'una volta, e non voglio tornarci su. Voglio soltanto festeggiare, ripeto. Godermi a modo mio l'avvenimento, senza nemmeno mettermi troppo dalla parte di coloro che, per soverchio di finezza, "ne peuvent pas (c'est une question de martinet) jouir".
Un libro di poesia è sempre una festa, un godimento. Ma lo è tanto di più quanto più in esso si ritrovano cose che conoscevamo già. Poesie che amavamo già per averle lette sparse e non ancora raccolte, e che quindi già facevano parte di quella piccola "antologia del cuore" che ciascun di noi si forma leggendo fuor d'ogni giudizio o pregiudizio critico. Antologia del cuore, e quindi preziosissima, appunto perché irragionevole. D'altronde...
Una raccolta di versi, pur nella sua unità d'insieme, è poi davvero un libro leggibile nella stretta successione aritmetica delle pagine, così come si legge (per riporlo subito dopo nello scaffale) un romanzo, o non piuttosto un oggetto da usare, e perciò da tener sottomano, come per esempio una spazzola per le scarpe, un vocabolario, o il pettine?
Non ritengo irriverente l'accostamento, a parte il fatto che non mi è mai piaciuto divinizzare la poesia.
Si sente il bisogno di rileggere certi versi di cui siamo innamorati, ma dei quali ci sfugge qualche tratto, ed ecco il libro pronto a soddisfare - come la foto dell'amata nel portafoglio - quel bisogno.
Io Sbarbaro l'avevo già quasi intero in casa, sia in separate pubblicazioni sia in originale, date le molte carte ch'egli volle lasciarmi prima d'andarsene; comprese le lettere autografe della Vivante, dalle quali aveva tratto il delizioso "Autoritratto (involontario) di Elena De Bosis", da lui curato "perché chi la conobbe la senta ancora parlare", e di cui ho fisso in mente il vivacissimo incipit: "Sono stata a violettare con la cittina, quella saltafossi...".
Sbarbaro, dicevo, l'avevo già quasi intero in casa, ma la - Festa"- non è per questo calata di tono, proprio perché il bel librone di ora mi resta molto più a portata di mano delle cose sparse, del resto sempre titubante a toccarle per timore d'usura.
Un giorno, se mai me ne verrà voglia, mi divertirò a confrontare coi testi in mio possesso, a caccia di varianti o di divergenze. Per il momento, e sempre in festa, preferisco correre a caccia dei miei amori.
Il più antico di tutti (per me) "Versi a Dina":
La trama delle lucciole ricordi /sul mar di Nervi, mia dolcezza prima?
(trasognato paese dove fui ieri e che già non riconosce il cuore).
Forse. Ma il gesto che t'incise dentro/ io non ricordo, e stillano in me dolce/ parole che non sai d'aver dette.
Estrema delusione degli amanti!/ invano mescolarono le vite/ s'anche il bene superstite, i ricordi,/ son mani che non giungono a toccarsi.
Ognuno resta con la sua perduta felicità, un po' stupito e solo,/ pel mondo vuoto di significato./ Miele segreto di che s'alimenta,/ fin che sino il ricordo ne consuma e tutto è come se non fosse stato.
Oh come poca cosa quel che fu da quello che non fu divide!
Meno che la scia della nave acqua da acqua.
Saranno state/ le lucciole di Nervi le cicale/ e la casa sul mare di Loano,/ e tutta la mia poca gioia - e tu - / fin che mi strazi questo ricordare.
...
Non dico che sia la più bella poesia di Sbarbaro. Non sempre ci s'innamora della ragazza più bella.
C'è poi un altro fatto. Spesso in una poesia amata sentiamo e vediamo anche ciò che in essa non è espresso. Dipende dallo stato d'animo in cui eravamo, e anche dal paesaggio che ci circondava, la prima volta che la incontrammo.
Ad esempio. Mi basta ridirmi il solo primo verso di "Vecchi versi" o della "Casa dei doganieri" di Montale, perché già mi senta immerso intero nella spesso nuvolosa aria rivierasca di Bonassola, dove vissi i miei anni forse più corrucciati ma anche più esaltanti. L'atmosfera (il romanzo sottinteso, ad libitum) è quello.
Forse soltanto la musica può gareggiare in questo (per questa forza vitale esorbitante dal testo) con la poesia.
Comunque, sempre nell'ambito dei "Versi a Dina", mi si lasci il piacere di ridirmi, per mio egoistico godimento, il finale, davvero degno d'un bassorilievo romanico:

Càpita all'uomo che d'autunno spoglia
la vite, sulla scala che ne fruscia
- vecchio è l'uomo ed autunno gli colora
l'anima dentro di malinconia;
ché con l'anno gli pare la sua vita anche finisca;
il poco che da essa ebbe gli mette
in strozza come una secchezza e inghiotte -
tra i pampini arrossati di scoprire
un superstite grappolo.
Ne colma la mano, preso d'infantile gioia;
soppesa quasi non credesse agli occhi.
Alla sua sete riserbò l'annata quel frutto; glielo maturò l'estate,
glielo dorò il sole dell'autunno,
la pianta vi spremé l'ultimo succo.
(...)
Guardan gli occhi felici e rassegnati
col grappolo scemare la sua prima, fors'ultima dolcezza.

Avevo (1| puntata del mio piccolo feuilleton) 19 anni giusti, e un ventilato mattino di sole, a Genova, andai come ogni sabato a comprarmi "L'Italia letteraria" al solito chiosco d'angolo tra Corso Buenos Aires e Via Casaregis.
Appesa al vetro del giornalaio c'era una rivista nuova, d'un rosso tendente all'ocra o al carota, e visto che conteneva versi (allora le riviste non erano egoisticamente chiuse in preservativi di cellophane) me la presi.
Era il primo numero di "Circoli": gennaio-febbraio 1931. Seduto su una verde panchina di ferro sotto i platani, i "Versi a Dina" (proprio fra Nervi e Loano, o addirittura fra Nervi e i Balzi Rossi, rincorrevo allora i miei amori) mi si stamparono per sempre nella mente.
Non avevo ancor letto nulla n‚ di Sbarbaro n‚ degli altri poeti della "Riviera ligure" (già morta, come si sa, fin dal '19, insieme con Ceccardo Roccatagliata Ceccardi), e a parte qualche casuale notizia riuscii a far conoscenza con loro soltanto nell'immediato dopoguerra a Roma, in biblioteca o in casa d'Enrico Falqui dove mi fu dato d'imbattermi anche in "Pianissimo" e in alcuni "Trucioli".
Mi avevano parlato di Sbarbaro come del "poeta dell'amarezza".
"Amaro?" (è lui stesso a rispondere). "Nella radice, se mai: la radice contorta che permette all'albero di essere all'aria un mazzo di fiori".
Vorrei che alla mia festa (quante altre pagine di Sbarbaro, in versi o in prosa, sono andato a cercare) si unisse il maggior numero possibile di lettori, e soprattutto si unissero quei giovani che, data la difficoltà ormai grandissima di reperire le varie pubblicazioni, non conoscono ancora, o conoscono soltanto in inadeguata parte, questo poeta che par nato apposta per loro.
Con la sua voce disadorna ma così stringente; con il suo inimitabile endecasillabo dinoccolato e quasi in ciabatte (definizione che allo stesso Sbarbaro non dispiacque); con la sua assoluta assenza d'ogni illusione in un mondo falso e ormai "vuoto di significato"; con la sua spietatezza verso questa "Terra guasta" (anticipando di quanti anni Eliot?); con la sua asciutta pietà verso gli altri ("pietà d'altri che me mi strinse il cuore"), e infine col suo stesso "canto" (ma "strozzato"), sempre diretto agli uomini e non ai Celesti (o ai Computer), davvero penso che nessun poeta nostro di questo nostro secolo sia più di Sbarbaro vicino - nel disincanto come nella sotterranea rivolta - allo stato d'animo di tanti ragazzi d'oggi, ai quali questo grande libro andrebbe offerto in dono. E non perché possano trovarvi consolazione, bensì ragione.
Fin dalla prima pagina, scritta nel 1910, incontriamo - terribile - il senso di solitudine piena che ci dà la città. Di solitudine e di corruzione:
Vo nella notte solo per vicoli deserti
lungo squallide mura...
È appena un accenno, che troverà il suo pieno sviluppo soprattutto in "Pianissimo" (il suo libro più famoso, con "Trucioli"), di "matrice baudelairiana" (cito ancora Mengaldo), e "al cui centro è il mito negativo della città moderna come deserto e bordello".
Ma non si pensi che Sbarbaro sia soltanto il poeta della negazione e della disperazione senza spiragli. Come già il "nichilista" Leopardi, nessuno ama con maggior forza della sua la natura e la vita semplice, e in particolare la sua avara e aspra Liguria ("Scarsa lingua di terra che orla il mare, / chiude la schiena arida dei montiÈ): la Liguria con le sue "petraie ventose", "l'ossame dei suoi greti", i suoi "limoni al sole", le sue agavi, l'intero suo paesaggio "scarnito all'osso, secca fauce sul mare che ne elude la sete spruzzandolo di schiume amare...".
È lo stesso amore agro (ruvido) degli "Ossi di seppia", pur se qui la musica è sempre in sordina: d'una "solarità", voglio dire, non squillante di "trombe d'oro", ma piuttosto espressa da sottili sistri, o striduli flauti di Pan. Tanto da farci davvero credere che Sbarbaro, per quella misteriosa influenza esercitata dalle voci nuove sulle più antiche, sia già, prima dell'apparizione di Montale, il più montaliano dei nostri poeti, perfino in ciò che Montale chiama "il male di vivere" e lui "la condanna d'esistere".
Può sembrare strano. Strano per i figli d'una terra che, da Nietzsche a Valéry, in molti hanno definito come la più legata al concreto delle cose solide. Ma è un fatto che quasi tutti i lirici liguri sono profondamente nutriti di filosofie orientaleggianti, e da queste portati (forse anche per effetto della luce estatica del mare e del cielo) a vagheggiare, nel lor medesimo amore per la natura, un irresistibile cupio dissolvi
"Svanire è la ventura delle venture", canterà per tutti loro Montale. Ma già lo stesso Mario Novaro (due volte addottoratosi in filosofia: a Berlino e a Torino) aveva esclamato: "Dolce la notte senza ombra di sogno, / dolce dormire, nel gran silenzio vanire, / Non essere più, / non essere nulla...". E ancora: "Tutto nella pura luce / è fiore/ meraviglia eterna / che trema (...) Perché non sono leggero / come questo pappo di soffione / che vola?..."
È una volontà di "volo" (nel caso specifico, di impossibile volo inteso come liberazione dal Male) che Sbarbaro, da parte sua, drammaticamente ironizza nei famosi versi:

Talora nell'arsura della via / un canto di cicale mi sorprende. / E subito ecco m'empie la visione / di campagne prostrate nella luce... / E stupisco che al mondo ancora sian gli alberi e l'acque, / tutte le cose buone della terra / che bastavano un giorno a smemorarmi... / Con questo stupor sciocco l'ubriaco / riceve in viso l'aria della notte. / Ma poi che sento l'anima aderire / ad ogni pietra della città sorda / com'albero con tutte le radici, / sorrido a me indicibilmente e come / per uno sforzo d'ali i gomiti alzo...

Ho citato un altro dei tanti miei amori qui ritrovati. E con tale citazione pongo fine - per oggi - alla mia festa, lasciando libera brigha al lettore nuovo perché da solo frughi nel folto del volume (più di 700 pagine), e a sua volta festeggi a modo suo, con asparagi o senza asparagi, le proprie scoperte e sorprese.
La spesa sarà di 50 mila lire. Meno del prezzo d'un cenone, ma con la garanzia sicura della genuinità di tutti i piatti offerti, dall'antipasto di "Primizie" (amarognole e un po' all'antica, perciò gustosissime) alla varietà del dessert, tutto di luminose "Versioni".

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Camillo Sbarbaro

1888, Santa Margherita Ligure

Camillo Sbarbaro è stato un poeta e prosatore italiano. Visse quasi sempre in Liguria; lavorò prima in un’industria siderurgica, poi insegnò greco e latino fino a quando dovette lasciare l’insegnamento per aver rifiutato di iscriversi al partito fascista. Fu erborista di fama internazionale: le sue raccolte di licheni furono acquistate da musei europei e americani. Nel ’51 si ritirò con la sorella a Spotorno; ma si spense nell’ospedale di Savona. Esordì con le poesie di Resine, del 1911, ma si affermò con Pianissimo (1914), che attirò l’attenzione della critica e gli aprì un periodo di intensa collaborazione a riviste come «La Voce», «Quartiere latino», «La Riviera ligure»....

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