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39 racconti per uno spaccato consistente del folklore giapponese. Non solo: attraverso i racconti si intravede l’anima, la sensibilità di un popolo. Discorso che vale al passato (i testi risalgono a inizio ‘900), ma impatta anche il presente, ricordando sempre che lo sguardo di Hearn, per quanto affinato da anni di convivenza, conserva filtri occidentali. Fantasmi, folletti, mostri, regni utopici, incantesimi e riti di protezione, promesse e vendette, shintoismo e buddismo, karma e reincarnazioni, il mondo fluttuante dell’ukiyo-e: spunti e linee tematiche si intrecciano in una sapiente articolazione di racconti. Merito del curatore (Ottavio Fatica), cui si deve anche una lunga e dotta postfazione, dove si ricostruisce la biografia di Hearn (quasi un romanzo a sé) e si offrono chiavi di lettura. Tra i tanti, esemplare e splendido il testo in chiusura (Lo specchio di Matsuyama): due paginette scarse in cui lo specchio si fa strumento cognitivo (fisico e simbolico) che travalica il tempo e ribadisce la necessità del confronto/legame con l’altro sa sé.
Non ho resistito all'acquisto di questa splendida edizione di Adelphi. Lafcadio Hearn era un giornalista e scrittore irlandese, poi naturalizzato giapponese con il nome di Koizumi Nakumo. A lui va il meritto della raccolta e divulgazione della cutlura nipponica in occidente. Una lettura a mio avviso estrememante interessante per avvicinarsi ad un mondo così controverso, dove modernità e tradizione si mescolano come yin e lo yang. Le sue storie di fantasmi, per nulla spaventose, mi hanno tenuto compagnia nelle calde sere d'estate. Completerò senz'altro la collezione di tutti i suoi magnifici racconti estrapolati dalla narrazione dal vivo e fedelmente da lui rielaborati.
Bisognerebbe degnarsi di omaggiare questo scrigno di bellezza su un Tanzaku, il nastro di carta dove le poesie vengono scritte dall'alto verso il basso e legate a un ramo come dediche grate. Il lirico e il cruento a fondersi in abbracci intensissimi, il macabro accanto al fiabesco, lunghi millenni e tradizioni ancora vive e vibranti, in un potente e delicatissimo concerto di prose da stringere il cuore ad ogni fiocco di pagina. Nel poscritto si legge: "Siamo noi occidentali a mancare di quell'umidità dell'anima per instaurare un'unione di uomo e terra che sussista per le mille, le ottomila generazioni occorrenti ai ciottoli per diventare rocce coperte di muschio". Siamo davanti a un uomo tanto conquistato da un mondo al punto da gettarsi nel suo pozzo profondo uscendone con queste tavole preziose; storie di alate promesse e atroci rese dei conti, di spettri abitati dalla più alta giustizia ed echi nostalgici uguali a ricami. Non a caso Lafcadio viene meravigliosamente definito "un commesso nel negozio delle sete". Bastano tre novelle a instillarsi nell'animo come gemme magnifiche, dossi amorevoli sulla via del ricordo dove, senza mezza goccia di dubbio, rintracceremo sempre tutti gli incanti che egli sa regalarci: la storia di Mimi-Nashi-Hoichi, la Fonte della giovinezza e il racconto di Ingwa. Un lento lavoro su antichi rimandi orali, su giuramenti e leggende, folletti e cerimonie, che diventa davvero la lastra interiore su cui quest'uomo depose fedelmente la sua vita, incarnandone fino in fondo ogni piega. E in un Paese dove "sotto ogni tetto, forse ancora più dell'uomo, è importante la sua ombra, uno spettacolo che ha il sipario per attore principale". E dove "la membrana divisoria fra interno ed esterno è sottilissima". I morti allora non muoiono, e certi miraggi, pur atterrendo nel loro crudo realismo, possono darsi come le metà risolte di scelte o azioni sospese, di morali finalmente sanate. Libro indimenticabile, polvere commovente di castighi e perdoni.
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