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Esistono libri necessari, e questo è uno di quelli. Claudio Magris ci porta per mano nel Museo della Guerra. «Tutta la Storia umana è un raschiamento della coscienza e soprattutto della coscienza di ciò che sparisce, di ciò che è sparito. Se qualcuno o qualcosa manca, fa male, e allora, dopo averlo tolto di mezzo – talora anche piuttosto per le spicce, come alla Risiera – si tolgono di mezzo pure la coscienza e la memoria di averlo fatto. La Storia, la società, le società sono maestre di neurochirurgia e stanno facendo rapidi progressi. [...] "Non lotto contro l'oblio, ma contro l'oblio dell'oblio, contro la colpevole inconsapevolezza di aver dimenticato, di aver voluto dimenticare, di non voler e di non poter sapere che c'è un orrore che si è voluto – dovuto? – dimenticare [...]".»
La guerra e la morte. Per il protagonista di questo lungo racconto sono momenti inevitabili, eppure superabili. Oggetti della memoria, da raccogliere in un museo, per farli parlare delle verità della vita. Questo romanzo è lo studio di un diario postumo, pieno di ricordi, di racconti fantastici, di testimonianze che attraversano la storia dell'umanità vista come caleidoscopica rassegna sull'odio, sia pur ravvivata dai contrasti cromatici del multiculturalismo, e riscaldata dalla misteriosa e paradossale fiamma della passione. La fantasia descrittiva di Claudio Magris ripropone l'avventura esotica con rigogliose divagazioni enciclopediche alla Jules Verne, che intrecciano un'interminabile, intricata emozione straniante con le vertiginose evoluzioni del sapere universale. Sullo sfondo di vicende lontane nel tempo, nello spazio e forse dalla realtà, si fanno strada le ombre inquietanti di tragedie vicine e recenti, ancora avvolte nel silenzio, da liberare pazientemente dal fumo dell'oblio. Trieste, città contesa, divisa ed inquieta, è il teatro ideale degli incontri che drammaticamente, tra i fragori delle armi o i bisbigli di una pace imperfetta, ingarbugliano i fili degli eventi, le logiche delle alleanze, i destini delle persone.
Illeggibile. Un irragionevole flusso di finte coscienze, un magma inattingibile di esperienze mai esperite, uno specchio rotto i cui frammenti non riflettono. Un dolore intellettualistico che cerca di seminare il lettore tanto è geloso di sé. Una fatica mostruosa che non dà nulla.
Recensioni
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Magris batte la sua guerra contro le guerre
Non un museo dell’innocenza, ma di armi, reperti bellici e strumenti di barbarie e morte: cannoni, archi, mitragliette, fucili, spade, mazze, divise militari, sottomarini, sirene antiaeree, e poi soldi, banconote di diverse valute (le armi più potenti del mondo, «Le V2 o il napalm mi fanno ridere»), volantini, macchine da scrivere, computer, penne («Ne uccide più la penna che la spada»); uno sterminato archivio composto di vecchi arnesi, cimeli reperiti ovunque, allo scopo di esorcizzare la guerra («madre coniglia che mangia i suoi piccoli restituendoli alla felicità del buio e del niente») e di esaltare la pace; un’esposizione permanente in alcuni capannoni che diventi un “Museo totale della Guerra per l’avvento della Pace e la disattivazione della Storia”. Questa è l’idea, questo è il monito al centro dell’ultima magistrale prova di Claudio Magris, triestino e mitteleuropeo, intellettuale italiano fra i più noti dentro e fuori i confini.
Un uomo senza nome coltiva un sogno all’apparenza irrealizzabile, cioè un simile museo, e una donna, Luisa Brooks, mulatta ed ebrea, figlia di una triestina scampata alla Shoah e di un sergente afroamericano morto in un incidente aereo ad Aviano, è chiamata portare avanti il progetto, dopo la morte violenta dell’ideatore (scintilla d’ispirazione un triestino realmente esistito, Diego de Henriquez, morto oltre quarant’anni fa), che ama dormire in una bara, vicino ai pezzi della sua collezione, e lì resta vittima di un incendio, che brucia anche le tracce di ciò che lui aveva scoperchiato, certe infamie della seconda guerra mondiale, rimosse e cancellate. C’è di che rimanere abbagliati, a patto di sfrondare i pensieri da ciò che gira attorno al testo e testo non è. Resettare è la parola d’ordine. Dimenticare il battage pubblicitario, gli elogi delle voci illustri in quarta di copertina, l’unanimità con cui è stato accolto, e i paragoni con altre opere dello stesso Magris, alcune impossibili da non leggere e da non custodire gelosamente a casa.
A prescindere da tutto questo «Non luogo a procedere», pubblicato dall’editore Garzanti, è un grande libro del nostro tempo: storie vere e immaginate compongono un testo dalla prosa preziosa, opulento, polifonico, veemente ed epico, una narrazione audace con cui ci s’interroga su bene e male e s’oppone in toto alle guerre in anni in cui le guerre proliferano (la pace sembra la più grande utopia del presente); un libro che è quanto di più vicino a un romanzo abbia mai scritto Magris, pur con digressioni lirico-saggistiche e colte divagazioni enciclopediche felicemente in agguato.«Non luogo a procedere» è una meditata riflessione tutt’altro che intima, è un libro che schiaffeggia il lettore a ogni pagina, per travolgerlo e risvegliarlo, ha un’andatura singolare ed imperfetta – di quella imperfezione bella, che non si può costruire, è naturale – andatura da libro-mondo, in cui s’alternano le descrizioni delle sale del museo, le vicende del protagonista senza nome e, scandita in otto capitoli, la storia di Luisa.
“Non luogo a procedere” è poi un atto di accusa nei confronti della storia («elettroshock», «tumore inoperabile», «raschiamento della coscienza» e «discarica») e dei suoi vuoti impossibili da colmare, e una condanna di Trieste, colta porta d’Europa, ma anche coacervo di silenzi avvilenti, delazioni, ambiguità, omissioni, complicità col male (paradigmatica la figura di Enrico Paolo Salem, podestà ebreo negli anni Trenta, poi battezzato e fascista), città intorpidita e infastidita dai fantasmi del passato che tornano e non vogliono essere seppelliti da verità manipolate: è il caso della Risiera di San Sabba, zona grigia per eccellenza delle terre giuliane.
Tra i tanti rivoli di storie intrecciate – storie di discriminazione e odio, ma anche di eroismo, febbrilmente affastellate – finisce inevitabilmente per spiccare quella della Risiera, l’edificio trasformato dai nazisti in lager, «prova generale dell’inferno», con l’unico forno crematorio in Italia, luogo di eccidi rimasti impuniti contro partigiani ed ebrei, che furono trucidati a colpi di mazza o sgozzati: per carnefici e complici – i cui nomi furono probabilmente scritti dai prigionieri sui muri, in italiano, in sloveno, in dialetto e successivamente cancellati, e che nel libro di Magris s’immaginano ricopiati nei taccuini del collezionista d’armi, danneggiati irreparabilmente dal misterioso rogo della sua morte – la storia e la giustizia non hanno emesso sentenze di condanna, ma solo di non luogo a procedere…
Recensione di Salvatore Lo Iacono
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