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Un libro spregevole, con una trama assurda e una inaccettabile violenza in cui non si salva nessuno.
Mi è piaciuto molto. Il romanzo è violento e cruento e questo di solito non mi piace, ho continuato a leggerlo per l'ambientazione insolita, esotica e affascinante. Andando avanti sono stata presa dall'atmosfera, da forza, integrità e sofferenza del protagonista, dal suo grande rispetto per le tradizioni del suo popolo. Y è un uomo che rispetta, onora e difende ciò che merita di esserlo, un'anima pura e tormentata in un mondo di persone che dimenticano le radici e inseguono il soddisfacimento di bassi istinti calpestando tutto quello che incontrano sulla loro strada. Una finestra sul meglio e sul peggio della natura umana. Manicheo.
Nella trilogia del commissario Yeruldegger il primo volume, Morte nella steppa è certamente il migliore. Se il secondo volume, Tempi selvaggi, non aggiunge niente di nuovo e anzi, perde piuttosto qualcosa a livello di compattezza narrativa, il terzo volume, La Morte nomade, si appiattisce fin dalle prime pagine su cliché che poi sviluppa in situazioni piuttosto inverosimili. Morte nella steppa resta quindi il racconto più fresco ed equilibrato, capace di valorizzare al meglio la figura di Yeruldegger, trovando la sintesi tra indagini e riflessioni, spazio urbano e distese sconfinate, rabbia e meditazione in un quadro complessivamente verosimile che viene reso affascinante dall’ambientazione. La Mongolia viene presentata come un Paese spietato in cui è difficile vivere, adesso come nei secoli passati. L’inverno, con temperature che arrivano a trenta gradi sottozero, non è più insopportabile del caldo estivo, specie nella steppa. E la violenza della polizia non è molto distante da quella delle bande criminali. Sono due facce della stessa medaglia, di un popolo fiero che rischia di perdere la propria identità.
Recensioni
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In questo thriller mozzafiato Ian Manook ci accompagna, un colpo di scena dopo l’altro, dai deserti spazzati dal vento dell’Asia Centrale fino all’inferno dei bassifondi di Ulan Bator.
Dopo la Svezia di Mankell, l’Islanda di Indriðason, la Scozia di Rankin, d’ora in poi ci sarà la Mongolia di Ian Manook.
«Questo thriller brilla per l’incredibile esotismo, per l’intensità e il mistero di un intrigo da cui è difficile staccarsi» -
Le Figaro magazine
«Un primo romanzo perfetto, palpitante e unico. Come un viaggio alla fine del mondo» -
Point de vue
«Un romanzo molto esotico. Una nuova regione compare sulla carta del crimine» -
Le temps
Dopo il nordic noir ecco arrivare il mongolian pulp. Dal gelo costante alle infernali escursioni termiche del Gobi. L’ultima frontiera di un genere che negli scorsi venti anni ha conosciuto un boom di ambientazioni bizzarre. Una tendenza premiata dagli affezionati di thriller, che paiono non stancarsi di imparare nomi impronunciabili. Le classifiche di vendita parlano chiaro.
Il protagonista di questo caso editoriale, il primo amatissimo capitolo di una trilogia pluripremiata in Francia, è Yeruldelgger Khaltar Guichyguinnkhen. Segnatevi bene questo nome, badando di non omettere alcuna di quelle simpatiche consonanti, perché siamo al cospetto di un personaggio destinato a entrare nei cuori di tutti gli italiani appassionati di thriller ed esotismo. Gigante irascibile e bevitore incallito di tè salato allungato con latte di capra e burro, Yeruldegger è un tormentato commissario della polizia di Ulan Bator, la capitale di una Mongolia post-sovietica ridotta allo stremo dopo i cinquanta anni di dittatura. Testimone di una società abbrutita quanto gli agghiaccianti palazzoni senz’anima lasciati dal comunismo, il commissario dovrà fare i conti con un triplice omicidio, in cui sono coinvolti dei cinesi evirati durante un rituale sessuale ammantato di simbologia nazista. Per quanto possa suonare peregrina, l’associazione Mongolia-Nazismo di questi tempi è diventata frequente, a testimoniare quanto l’ateismo di stato e lo sradicamento dalle tradizioni abbiano partorito, dopo il ritorno alla democrazia e l’improvvisa modernizzazione, uno sbandamento dei valori tale da far pensare ad alcuni giovanotti locali che Hitler avrebbe incluso volentieri i mongoli nel novero degli ariani. Nel frattempo Yeruldegger seguirà un altro caso, riguardante il rinvenimento del cadavere di una bambina sepolta, probabilmente viva, con un triciclo, un’immagine straziante che ricorda al commissario una figlia morta in tenera età. Il gigante astioso ha un cuore, ma sia chiaro, non ha alcuna intenzione di svelarlo, anzi il dolore per quella associazione lo indurirà ulteriormente, in un crescendo di efferatezze e tensione.
Non aspettatevi solo sangue e lacrime. Ci sono divertenti digressioni sulla cucina locale e scommettiamo che qualche buontempone si lascerà ingolosire dai barbecue nel deserto con marmotta arrostita e ogni variante di latte avariato.
Manook ritrae con occhio disilluso la miserabile bolgia tartara, spogliandola dell’antico retroterra sciamanico e dell’ombra di Genghis Khan, fiacchi ammennicoli di un passato stantio, sradicato prima dal comunismo e oggi dai Mc Donald’s di Ulan Bator. Gli stereotipi con cui i lettori occidentali sono soliti descrivere la magia del Deserto del Gobi vengono infatti spazzati via da un racconto ricco di violenza e cinismo, che rispetta tutti i crismi del genere, ma porta alla luce anche la complicata situazione sociale del paese, tra razzismo e povertà. La geografia del mistero non conosce confini. La scommessa mongola di Manook si rivela riuscitissima.
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