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Anno edizione: 2024
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Statovci è uno scrittore di singolare originalità e potenza, e in questo suo esordio abbraccia la complessità del nostro mondo creando un'opera letteraria che possiede la forza di un classico del futuro.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Il mio gatto Jugoslavia (Adelphi, 2024), pubblicato per la prima volta in Italia nel 2014 per Frassinelli è il romanzo d'esordio di Pajtim Statovci. Una storia potente di ribellione, di identità e accettazione ambientata tra la Jugoslavia e la Finlandia, dove il centro del romanzo è la vita che si dispiega per trovare un proprio centro, il proprio benessere. Il tutto condito tra rapporti genitoriali conflittuali e strane e strambe figure come una boa e un gatto, che lo aiuteranno nel difficile percorso d’indagine nelle pieghe del proprio passato. «La diversità è un peso», mi disse, scoraggiato. «La gente non fa altro che osservare me e te, e stupirsi; guardano me e te e si stupiscono! Dapprima ci si prova a sembrare come gli altri, e quando non funziona, allora ci si sforza di inventare battute delle più insulse, tentando di nascondere la propria diversità con l’umorismo, poi, quando le battute non divertono più, si passa alle menzogne. E quando nemmeno queste sono d’aiuto, è tempo di fare i bagagli e cambiare aria». Uno Statovci all’esordio sempre interessante, anche se nei romanzi successivi – secondo me – dà prova di avvenuta maturità come scrittore.
La sensazione di euforia che accompagna il lettore dopo aver scoperto una penna eccellente è impareggiabile, è il motivo che lo spinge a leggere con ardore. E io oggi sono decisamente euforica. Statovci è uno scrittore notevole, nettamente al di sopra della media in quanto unisce l'abilità descrittiva con una originalissima capacità di coinvolgimento emotivo. Coniugare entrambi questi aspetti è un dono assai raro e Statovci, classe 1990, per ora ha tutte le carte in regola per entrare a pieno titolo nel mio Olimpo letterario. Il libro alterna la storia di Emine e di suo figlio Bekim, emigrati in Finlandia a seguito della guerra dei Balcani. Il Kosovo, paese di origine, resta sempre sullo sfondo della narrazione e nei pensieri piú reconditi dei protagonisti. I demoni del passato si affiancano a quelli del paese adottivo, che fatica a integrare gli immigrati e cosí la storia si popola di serpenti (reali e non) che, insieme ai gatti, sopperiscono alla solitudine ed esorcizzano le paure. L'intreccio narrativo che ne deriva è stupendo e originale, a tratti surreale.
Due storie parallele, quella di una madre e di un figlio. Due storie disgraziatissime, la felicità non è di questo mondo. Il matrimonio che dovrebbe rendere felice Emine si trasforma in una vita di sofferenze, soprusi e botte. Bekin fugge dalla famiglia e dal suo paese in guerra. La Finlandia non è il paradiso, ma un altro carcere a cielo aperto, un luogo dove dimenticare la propria identità, dove è necessario farsi credere altro. Tra la primavera del 1980 al 2009 succede di tutto. “Le persone erano morte dentro, le vene che portavano ai loro cuori avevano reticoli di muffa e le loro anime erano nere e appiccicose. Meritavano ancora di vivere i responsabili di orrori simili?” La morte di Tito (1980) porta allo sfaldamento della Iugoslavia, risorgono i nazionalismi, profonde e terribili lotte tra regioni e religioni. Un massacro. Bekin adotterà come amico un enorme boa, conoscerà un gatto parlante e gagà. Emine, finalmente, fuggirà da un marito padre padrone. Vite disperate. “Tutti dovrebbero almeno una volta provare cosa significa restare senza alternative.” Sullo sfondo, appena accennato, l’amore che potrebbe salvarci.
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