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Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2017
«Ci fu un tempo, ormai molti anni fa, in cui dovetti trascorrere quasi nove settimane in ospedale. Succedeva a New York e la notte, dal mio letto, vedevo davanti a me il grattacielo Chrysler con la sua scintillante geometria di luci.»
«Elizabeth Strout è riuscita a dipingere con le parole il momento del riconoscimento, il momento raro in cui dentro una famiglia si fa giorno» – Annalena Benini
«Proprio come fece in "Olive Kitteridge", Strout costruisce una piccola contea di relazioni allacciate, ognuna delle quali meriterebbe un libro tutto per sé» – Paolo Giordano
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Una serie di incontri si susseguono per Lucy. Quello con se stessa, quello con la madre, con il suo passato, con la sua infanzia, aspra e dura, con persone che ha conosciuto e non dimenticato. In mezzo alle tante situazioni vissute, tra cui numerose delusioni e qualche successo, emerge la sua particolare capacità di lasciare alle spalle le negatività, di attraversare l’esistenza senza troppi blocchi interiori. Ciò le permette di raggiungere mete a cui altri, con cui ha comunque condiviso momenti di valore, non riescono ad arrivare. Prendendo spunto dalla sua professione traspaiono anche delle significative riflessioni su alcune delle tappe, dei passaggi e dei sacrifici che deve sostenere uno scrittore per svolgere la sua attività. Il linguaggio essenziale, fluido e trascinante, con cui l’autrice riesce a raccontare le immagini di vita di Lucy in ospedale e quel suo mondo nordamericano di intrecci vitali aiuta a percepire più a fondo i suoi sentimenti, a vivere attimi con lei. Rende facile, leggero e coinvolgente lo scorrere le pagine del libro.
“Mi chiamo Lucy Barton” è il primo racconto che leggo di Elizabeth Strout. La sua è una scrittura ‘avvolgente’, che per me equivale a ‘più che coinvolgente’. Sarah - che è un personaggio fugace del racconto, eppure cruciale - ritiene che il suo compito, in quanto romanziera, sia di “riferire della condizione umana, raccontare chi siamo e cosa pensiamo e come ci comportiamo”. Penso che questo convincimento sia la chiave di lettura del racconto. La protagonista, Lucy Barton, narra di sé con l'intento di raccontare e di raccontarsi come ha costruito la sua esistenza a partire da una condizione di forte marginalità, che è quella della sua famiglia, afflitta da una profonda miseria materiale e morale. Se è indubbio che lei è riuscita ad andare avanti, ad andare altrove e ad ascendere, certe ferite non riesce a rimarginarle. La narrazione avviene perlopiù in una sua fase di grande fragilità, agli inizi dei suoi trent'anni, in cui si ritrova con la madre dopo un lungo periodo di distanza. Nella narrazione si alternano descrizioni di situazioni specifiche, entrando anche nei dettagli più minuti, e frammenti introdotti, interrotti e poi ripresi, ma mai compiutamente sviluppati. Il tono è quello di una conversazione orale con il lettore, ricorre l’inciso “come ho già detto”. Quel che avverrà dopo questa fase di malattia e di incontro con la madre è affidato solo a frammenti rapidi quanto incompiuti, eppure esaustivi. Nell’esistenza di Lucy, che diventerà una scrittrice di successo, la scrittura e la narrazione sono salvifiche; ma ciò che è narrativamente ricomposto, non si ricostituisce nella realtà, né la famiglia di origine, né la famiglia coniugale. Prevale, perlopiù, una realtà di frammenti. “La vita mi lascia sempre senza fiato”: questa è la frase che conclude, difatti, il racconto. E che voglio trattenere insieme a un’altra: “a mio giudizio è il fondo del barile di chi siamo, questo bisogno di trovare qualcuno da snobbare”. Insostituibile: come poterlo dire meglio?
Ho comprato questo libro perché mi piaceva la copertina; ebbene sì, superficialità pura. Mi ricorda molto Salinger perché è un diario in cui l'autrice racconta la sua vita, i suoi affetti e i suoi conflitti; ma la storia ti rimane dentro perché è dolorosa, profonda, traduce silenzi in parole, ma è più quello che viene taciuto che quello che viene raccontato. Lo stile è nitido, svelto, i personaggi tratteggiati con poche e vivide espressioni che ne mostrano il carattere, la consapevolezza della propria inadeguatezza in un mondo consumista, in cui la miseria è considerata un'imperdonabile colpa.
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