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Anno edizione: 2020
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Vincitore del Premio Strega Europeo 2020
Una raccolta di dodici storie, ciascuna dedicata a una cosa che non c’è piú: narrazioni sospese in un delicato equilibrio tra presenza e assenza, fotografie ben a fuoco ma stampate con inchiostro scuro su carta scura, piccole realtà che solo l’immaginazione è in grado di riportare alla memoria.
«Il libro più stupefacente dell'anno: recuperando cose scomparse e trasformandole in grande letteratura, questa autrice ha compiuto una magia». - Die Zeit
«Judith Schalansky rende tutto nuovo e originale, cambiando il punto di vista». - la Repubblica
La Storia del mondo è piena di cose che sono andate perdute, smarrite nel corso del tempo o distrutte intenzionalmente, a volte semplicemente dimenticate – o magari, come si racconta nell’Orlando furioso, volate in un archivio sulla Luna. Inventario di alcune cose perdute è una raccolta di dodici storie, ciascuna dedicata a una cosa che non c’è piú: narrazioni sospese in un delicato equilibrio tra presenza e assenza, fotografie ben a fuoco ma stampate con inchiostro scuro su carta scura, piccole realtà che solo l’immaginazione è in grado di riportare alla memoria. Si va da Tuanaki, un’isoletta indicata su vecchie mappe che ormai giace sotto il livello del mare, alla tigre del Caspio, il cui ultimo esemplare impagliato andò distrutto in un incendio; dallo scheletro di un presunto unicorno, nascosto chissà dove, a Kinau, un selenografo tedesco dell’800 di cui pare nessuno sappia nulla, fino alle misteriose lacune dei carmi amorosi di Saffo, che custodiscono ipotesi e segreti. Come aveva già fatto nel suo Atlante delle isole remote, in questo libro Judith Schalansky gioca a ricreare mondi del passato a partire da pochi frammenti, si cala nei contesti, nei linguaggi, coglie di volta in volta gamme di colori e sensazioni, restituendo a ogni cosa anche il piú piccolo dettaglio, storico o visionario che sia.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
In effetti la storia è fatta così: perdere le cose, dimenticarle e poi ritrovare nel ricordo e nelle testimonianze di un tempo che fu.
E succede che da un momento all'altro si smarrisca qualcosa, magari perché si è sovrappensiero, con la testa e il corpo dissociati a causa di un enorme traffico mentale, difficile da gestire. A volte, e sono le volte peggiori, accade di perdere qualcuno, per una disattenzione, per gesti e parole fuori tempo, fuori luogo, oppure perché la vita ha fatto il suo corso ed è sopraggiunta la morte. È in questi casi che cuore e mente iniziano a fare l'inventario delle cose perdute legate a chi abita il nostro cuore e i nostri pensieri. E se "Vivere significa fare esperienza della perdita. ", "Una memoria che tutto conserva in fondo non conserva nulla." Si ricorda, ciò che è incastonato nel proprio cuore, ciò che ha lasciato un segno: il resto è lasciato fluire nel fiume dell'oblio. "Ma l’arte dell’oblio è qualcosa di impossibile, perché tutti i segni, anche quando rimandano a qualcosa di assente, rendono le cose presenti." Dodici storie, dodici tasselli che raccontano la storia del mondo, che non ci sono più nella loro pienezza, ma resistono nelle tracce che continuano a parlare di essi: Tuanaki La tigre del Caspio L’unicorno di Guericke Villa Sacchetti Il ragazzo vestito di blu I carmi d’amore di Saffo Il castello dei von Behr I sette libri di Mani Il porto di Greifswald L’enciclopedia nel bosco Il Palazzo della Repubblica I disegni della Luna di Kinau Abbracciando la visione ariostesca, tutto ciò che perdiamo sulla Terra va a finire sulla Luna. E se sulla Terra, un corpo decomposto è sede di vita, "nei crateri di smaltimento lunare non ci attende la rinascita, ma solo la decomposizione ..." Se un inventario è un modo per avere cura dei propri luoghi della memoria, per alimentare la nostalgia del ritorno, esso offre anche allo sguardo delle finestre aperte al futuro. Siamo ciò che custodiamo. Siamo ciò da cui siamo rinati.
Recensioni
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Dodici nomi, dodici parole: cosa le lega? Un destino comune: l’oblio.
Da questa affascinante quanto inquietante premessa Judith Schalansky parte per narrare una storia dell’umanità e della terra originale, diversa. Una antologia con 12 racconti in cui le parole possono riportare in vita, tra la moltitudine delle cose, sia l’atollo Tuanaki sommerso dalle acque del mare sia il selenografo tedesco Kinau, completamente dimenticato dopo le morte.
L’autrice diviene un’archeologa che scava nelle rovine del passato e ripercorre le tracce delle cose celate dal tempo, rispondendo l’eco della loro voce offuscata con l’immaginazione propria della finzione narrativa.
Nell’inventario di Judith Schalansky anche la pellicola perduta del primo film di Murnau conserva ancora una storia da proiettare.
Private di una collocazione temporale, le cose, attraverso l’eredità della memoria, si riappropriano di un passato a cui conferire qualcosa di nuovo – allo stesso modo dei segni i cui significati mutano e assumono valenze prima sconosciute – salvandosi dall’invisibilità dell’ignoto.
Recensione di Agrippina Alessandra Novella
Si ringrazia il Master Professione Editoria dell'Università Cattolica di Milano
«E in qualche raro momento, nel corso dei lunghi anni in cui ho lavorato a questo libro, l’idea che tutto scorra inevitabilmente mi è sembrata consolante quanto l’immagine dei suoi esemplari che s’impolverano sugli scaffali.» Un catalogo, un resoconto, un registro dell’irreversibile transitorietà di ogni cosa. Un libro fuori dal comune, come lo era già Atlante delle isole remote, edito da Bompiani. Il passo in avanti, o forse laterale, che compie Judith Schalansky è Inventario di alcune cose perdute (258 pagine, 19 euro), pubblicato dalla casa editrice Nottetempo, nella traduzione di Flavia Pantanella. Questa scrittrice e designer tedesca, che può attirarsi qualche critica per certo manierismo di alcune pagine, è invece inattaccabile per come ha costruito e curato personalmente l’oggetto libro (oltre al testo immagini sfocate e illustrazioni colorate di grigio, inserti grafici) la grazia con cui evoca, per l’appunto, ciò che è perso, le ombre di ciò che non tornerà, cicatrici che non guariranno. Non c’è consolazione e non c’è nemmeno una concessione al sentimentalismo.
Quali sono le cose che Schalansky, classe 1980, registra come scomparse, attraverso i secoli, e trasforma in storie? Luoghi naturali e non, creature, opere d’arte. Una dozzina di esempi. Il suo modo di fare sopravvivere le cose. Ma senza eccessi, perché come spiega la stessa autrice nel brano che introduce il libro e che sta in equilibrio fra ricordare e dimenticare, «Di certo dimenticare tutto è grave. Ma ancor piú grave è non dimenticare nulla, dato che produrre conoscenza è possibile solo grazie all’oblio. Se tutto viene indiscriminatamente salvato, come nelle memorie dati che consumano energia elettrica, tutto perde significato e diventa un ammasso disordinato di informazioni inutilizzabili».
Le assenze sono dunque indispensabili, ma quelle che racconta Judith Schalansky (con un pizzico di autofiction, tra vita e invenzione di un personaggio che si chiama come l’autrice) sono assenze imperfette, perché tutte lasciano impercettibili o grandi segni, come una scia. Così si legge dei “buchi” dell’opera poetica di Saffo, dell’ultimo esemplare della tigre del mar Caspio, impagliato e andato a fuoco in un incendio, di un ritratto bruciato, dello scheletro di quello che sembrerebbe un unicorno, o di Tanuaki, un atollo sprofondato nel diciannovesimo secolo nel corso di un maremoto, nell’oceano Pacifico, o di uno storico palazzo demolito, quello della Repubblica a Berlino, sfondo della fine di una storia d’amore.
Recensione di Giovanni Leti
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