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Anno edizione: 2000
Anno edizione: 2025
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uesto libro è l’importante “snodo” tra la Ortese narratrice del fantastico, del magico, della “realtà trasfigurata” (che la porterà, attraverso il successivo “L’Iguana”, ai massimi capolavori quale “Il Porto di Toledo” e “Il Cardillo addolorato”) e quella più ancorata alla realtà de “Il Mare non bagna Napoli” e ai suoi reportage, soprattutto di viaggio. I racconti di questo libro, infatti, sono raccolti in tre distinte sezioni, e se le prime due fanno senza altro capo alla prima tipologia, la terza e conclusiva appare la premessa a quel duro ritratto della città partenopea che la costrinse a rompere i ponti con essa, dove era cresciuta in una sorta di incanto. Che è quello stesso incanto che dà origine alle storie narrate, sull’onda della prima sua raccolta pubblicata (“Angelici dolori”) di racconti che finiranno quasi tutti (rielaborati) nel “Porto di Toledo”, il romanzo della sua vita immaginata o meglio “trasfigurata”. In mezzo a queste, a segnare questo snodo, la guerra. Prima della quale Napoli è la città del sogno, l’ispanica “Toledo” della sua infanzia, e dopo quella una città di rovine, materiali e morali, come a seguito di un brusco risveglio. Nel mondo della Ortese è faticoso, forse, al giorno d’oggi calarsi. Ma lo sforzo può rivelarsi premiante. Per riuscire a scorgere l’innocenza (e l’ineluttabilità) del dolore.
Recensioni
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recensioni di Perrella, S. L'Indice del 2000, n. 10
Ci sono scrittori - rari nel Novecento - che non amano legittimare la propria opera letteraria con la cultura e lasciano i propri libri indifesi e nudi davanti agli occhi dei lettori. Sarà il tempo a decidere della loro sorte e sarà sempre il tempo a rileggerli e a modificarli, come avviene con tutte le creature viventi.
Anna Maria Ortese, tra questi scrittori, è quella che in massimo grado si è affidata alla sorte indifesa ma necessaria e naturale del tempo. Indica forse questo che si sia trattato di una scrittrice incolta, basatasi per il suo lavoro letterario solo sull'istinto? Nient'affatto. Questo significa, invece, che l'unica vera forza che lei attribuiva ai suoi libri risiedeva in essi; nessuna giustificazione a posteriori doveva sorreggerli.
Da qui la sua perenne scontentezza e la necessità, quando ne trovava le forze, di riscrivere il già scritto, non solo per migliorarne la forma, ma soprattutto per testimoniare il mutamento avvenuto in lei nel frattempo: in lei come essere umano e in lei come attuale lettrice di quel testo. Niente veniva tesaurizzato una volta per tutte, e ogni volta, anche davanti a un libro scritto alcuni decenni prima, era come la prima volta.
A Monica Farnetti - autrice di una monografia polifonica su Anna Maria Ortese, edita da Bruno Mondadori - l'Adelphi ha affidato la cura di L'Infanta sepolta, secondo libro ortesiano pubblicato nel 1950 e sinora mai ristampato (c'è anche una notizia bibliografica stesa da Giuseppe Iannaccone). Ed è Monica Farnetti a ricordare che Anna Maria Ortese dedicò le sue ultime fatiche alla riscrittura di Il porto di Toledo, che era già in parte una riscrittura del suo libro d'esordio, quegli Angelici dolori tenuti a battesimo da Massimo Bontempelli. Anna Maria Ortese si è dunque congedata dalla vita interrogando le proprie origini immaginative, come è avvenuto, ad esempio, a Goffredo Parise. Ma le domande poste alle proprie immagini, e l'implicita risalita del tempo, non erano domande logiche, erano piuttosto un'altra opera dentro l'opera, un rigenerarsi della tensione di allora dentro quella di oggi, in un incessante processo metamorfico.
L'Infanta sepolta è un libro composito. In esso la prosa di Anna Maria Ortese saggia più direzioni, e non tutte le sue energie prendono la loro forma necessaria. Ma spesso, leggendo o rileggendo, non si può nascondere la sorpresa di sentire la voce della scrittrice dire ciò che le starà a cuore per tutta la vita, come per esempio, in questo elogio della pietà: "Quale bella cosa la pietà, in un essere vivente. Quella pietà non nata da debolezza o timore di castighi o comunque cupo e remoto sospetto di una legge punitiva, ma soltanto dalla valutazione e condanna degli atti che possono rendere infelice un'altra creatura - soprattutto se indifesa e affidata al nostro potere! Trovare qualcuno che non goda intimamente, da tutti inosservato, del vedere un altro essere caduto e dolorante; che senta in sé un fremito di rivolta a quello spettacolo, e desideri porvi un riparo - non credo esista nient'altro, sulla terra, che meriti l'attributo di divino".
Il desiderio di porre riparo al disastro del mondo con armi fragili come la pietà ha lungamente guidato Anna Maria Ortese, e mi fa oggi pensare a quei versi di Montale, scritti durante l'infuriare della seconda guerra mondiale, nei quali appaiono alcuni porcospini che si abbeverano a un filo di pietà. Anche Anna Maria Ortese ha cercato di abbeverarsi a quel sottilissimo filo e l'ha fatto, lei così solitaria e in perenne esilio, immaginando possibilità di convivenze dove gli uomini rispettassero non solo i propri simili, ma anche ogni altro essere vivente, animale e vegetale.
Tra le prose di L'Infanta sepolta, quelle che prediligo sono Gli Ombra e Grande Via, entrambe appartenenti alla terza parte della raccolta, quella dedicata quasi del tutto a Napoli. Sono convinto che l'incontro tra il mondo interiore di Anna Maria Ortese e la realtà di questa città sia stato determinante per entrambi. E non è difficile immaginare la giovane Ortese che percorre coraggiosamente sperduta le strade della città. È quasi sempre sola e il suo sguardo vola e s'impadronisce non solo della topografia visibile ma anche e soprattutto di ciò che solo lei è stata capace di vedere, rendendolo in seguito visibile anche a noi e alla città stessa.
In Grande Via la protagonista è Foria: "Non esisteva in Napoli un luogo che, meglio di quella via, così stranamente animata e quieta, aperta e misteriosa - una delle vie più solenni di questa città e tanto ingiustamente ignorata -, potesse dare all'anima un senso di confusione e di festa, di smarrimento e di gioia, di libertà e di paura; gonfiare il petto di così dolci pensieri e velare la mente con una musica così dolorosa e distratta; poi, quasi in volo, portare lo spirito sull'orlo di una valle non segnata sulle carte di questo mondo, dove, per entro una calma e una lucidità incomparabili, si scorgono passeggiare gli eterni Simboli e le struggenti Idee". (Qualche anno dopo, in uno scritto di viaggio raccolto poi in La lente scura, Anna Maria Ortese tornò a descrivere via Foria in poche righe definitive che credo contengano il seme da cui nascerà Il cardillo addolorato).
Questo secondo libro della scrittrice - è Iannaccone a ricordarlo - avrebbe dovuto intitolarsi Il mare non bagna Napoli; titolo che invece servì per il libro successivo, che tanto scalpore suscitò negli ambienti letterari della città, provocando una sua definitiva lontananza fisica da Napoli. Quando uscì la nuova edizione adelphiana di quel libro, telefonai all'autrice. Avrei desiderato incontrarla, ma sapevo quanto fosse difficile. Dopo quella prima telefonata ne seguirono altre, distanziate nel tempo, che surrogarono un incontro che non avvenne mai.
Ciò che riguarda Anna Maria Ortese fuori dalla sua opera si concentra dunque per me sulla sua voce. Ne ho un ricordo vivo, perché mi colpì subito la giovinezza svelta che in essa si avvertiva. Si scusava spesso di qualche sua inadempienza, e lo faceva insieme con timidezza e determinazione. Mi sembrò la voce di chi aveva molto camminato - e le tracce dei suo andirivieni nella geografia reale nutrivano in modo imprevisto e indefinibile la sua tonalità - cercando un luogo che potesse accoglierla pienamente, e mai trovandolo. Anche perché la sua vera e unica casa era sempre stata la scrittura: "Chi scrive o legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene", le era scappato di dire una volta.
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