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Anno edizione: 1987
Anno edizione: 2014
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Nella nota biografica che accompagnava un suo libro, Cristina Campo diceva di se stessa: «Ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno». Quel poco è quasi tutto raccolto in questo libro e imporrà una constatazione a ogni lettore percettivo: queste pagine appartengono a quanto di più bello si sia mostrato in prosa italiana negli ultimi cinquant’anni. Cristina Campo era un’imperdonabile, nel senso che la parola ha nel saggio che dà il titolo a questo libro: come Marianne Moore, come Hofmannsthal, come Benn, come la Weil, aveva la «passione della perfezione». Non altrimenti avrebbe potuto scrivere le pagine che qui si leggono su Chopin o sulla fiaba, sulle Mille e una notte o sul linguaggio. «Saluto una sapienza oggi fra le più strane» ha scritto Ceronetti, una volta, della Campo. Forse è venuto il tempo perché i lettori si accorgano che in Italia, in mezzo a tanti promotori delle proprie mediocrità, è vissuta anche questa «trappista della perfezione».
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Gli imperdonabili (Adelphi, 1987) di Cristina Campo è un libro che raccoglie tutti i suoi scritti, un saggio che mette insieme tutti i suoi contributi sull’Arte, sulla Fiaba, sul Linguaggio, sul mondo Letterario. Come per l’altro libro La tigre assenza (Adelphi, 1991) che raccoglie tutta la sua produzione poetica, anche qui non sono riuscito ad entrare in sintonia con l’autrice, pur riconoscendone il valore letterario e la scrittura impeccabile. Per me troppo involuta su sé stessa e con un misticismo e un attaccamento religioso che me la rende indigesta. Credo, che dopo, questo ulteriore tentativo, il mio rapporto con la scrittrice finisce qui. «È da notare come toccando la fiaba uno scrittore dia infallibilmente il meglio della sua lingua, divenga scrittore se anche non lo sia mai stato: quasi che al contatto con simboli insieme così totali e particolari, così eccelsi e toccabili, la parola non possa distillare che il suo sapore più puro. Sicché basterebbe un fabulario classico perché a un bambino fosse aperto insieme l’atlante della vita e quello della parola». «Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi».
E' un libro magnifico, del quale - devo ammettere - non conoscevo nemmeno l'esistenza fino a poche settimane fa. E' come se ogni parola fosse perfetta, ogni frase la migliore che si potesse scrivere e ogni pensiero il più necessario. Non ricordo davvero di aver letto mai nulla di paragonabile, per valore assoluto, a questo libro.
Pur ammirando moltissimo lo stile, la grazia, l'eleganza dell'esposizione, la perfezione delle frasi, ho faticato a seguire le elucubrazioni mentali, le digressioni culturali, le raffinate ed erudite analisi letterarie dell'autrice. Purtroppo per me, questa donna coltissima tratta spesso temi che non mi sono familiari. Ecco perché ho dovuto rileggere molte pagine: per ruminarne il contenuto è dopo svariate riletture ho iniziato ad amarlo. Il fascino esercitato, sull'autrice, da una certa liturgia si riflette in una prosa che sa d'incenso, di terra, di marmi lisci, carni bianche, turgide e fredde, di suoni pesanti, modellati da lucenti - ori bizantini - canne d'organo, di ombre e luci a scacchiera, come nell'intimità di un confessionale. Resterà sempre un misterioso capolavoro nella nostra letteratura.
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1987)
recensione di Kleiner, B., L'Indice 1988, n. 1
Il volume raccoglie le varie "cose scritte" di Cristina Campo, nome d'arte eletto da Vittoria Guerrini; sono testi in gran parte pubblicati già precedentemente, per lo più negli anni sessanta. L'intenzione costante, sotterranea che lega gli argomenti trattati, a dire il vero assai distanti fra loro, anzi, apparentemente disparati, come la fiaba, i tappeti orientali, il destino, le figure retoriche o la perfezione estetica, è il riferimento tacito ad una esperienza interiore, alla quale, attraverso i vari temi, viene alluso senza che essa si espliciti mai fino in fondo. Non v'è quindi da stupirsi che la figura centrale e ricorrente - retorica, argomentativa e speculativa - in questa smagliante prosa, sia la litote.
Il saggio che dà titolo al volume qualifica come "imperdonabili", agli occhi dei loro contemporanei, quelle poche persone, poeti in prevalenza, che oggi sappiano ancora, non soltanto sopportare, ma "guadagnare alla mente" la bellezza e la perfezione perdute in una epoca di "massacro universale del simbolo, [di] inespiabile crocefissione della bellezza" (p. 121). Nello stesso senso vanno intese le osservazioni sulla perdita del destino individuale, in questa "epoca di progresso puramente orizzontale" (p. 73) e il conseguente tentativo di ricostruire i luoghi e gli estremi di una esperienza interiore che il proprio destino, lo sappia cogliere, ac-cogliere.
Uno dei luoghi privilegiati dove tale 'restitutio' dell'anima si compie è, accanto all'esperienza religiosa, la fiaba. Sono dei piccoli capolavori di complessità, i due saggi esplicitamente dedicati ad essa "In medio coeli" e "Della fiaba". Entra in gioco il tempo biografico della narrazione, la vecchiaia, la quale, a doppio filo, si lega all'infanzia - in quanto contenuto ricordato e destinatario della narrazione (il bambino). Questo tempo curvo viene poi intrecciato al tempo spaziale della fiaba, spazio percorso in un dato tempo (sette giorni, sette anni), "che alla fine si svelerà un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella - o addirittura un punto immobile dal quale l'anima non partì mai, mentre il corpo e la mente faticavano nel loro viaggio apparente" (p. 17), per poi essere allacciato e stretto in quel nodo singolare dal quale si sprigiona il momento presente, il momento della rivelazione e del tempo ritrovato, il "momento della bilancia sospesa, del filo di spada, della punta di remo su cui le antitesi si conciliano" (p. 25) e che palesa ad "uno spirito trasformato... terra nuova e cieli nuovi intorno" (p. 42).
Attraverso la composizione polifonica di questi saggi che coinvolge anche il linguaggio intrecciandolo alle altre voci e conducendolo insieme ad esse, si delinea l'immagine di un tempo interiore nei confronti della quale la "durée" bergsoniana impallidisce e non sembra che una concettualizzazione unidimensionale dell'attesa e della noia. È un tempo interiore animato e ritmato dal "peuma", ed è nel suo spazio che si apprende la "caparbia, inesausta lezione della fiaba [che] è la vittoria sulla legge di necessità, il passaggio costante a un nuovo ordine di rapporti e assolutamente niente altro, perché niente altro c'è da imparare su questa terra"(p. 34)
Al di là delle leggi di necessità si colloca anche la "sprezzatura", atteggiamento morale e psicologico di difficile definizione perché "necessita di un contesto quasi perduto al mondo di oggi" (p. 98) che si direbbe però quello specifico dell'autrice. Nel saggio "Con lievi mani", Cristina Campo la descrive come una specie di trasognata noncuranza nata dalla grazia e, al contempo, estrema stilizzazione della propria esistenza, e ne dà una vasta gamma di esempi che spaziano da Gesù Cristo a Nicola, ultimo zar delle Russie, da Cosimo dei Medici a Fréderic Chopin. Di quest'ultimo afferma che "'nulla lo infastidiva di più che esser creduto sulla parola dei suoi modi dolcissimi e della sua cortesia slava': lamento, ahimé, tutto moderno dell'uomo bennato in un mondo ormai barbaro - non barbarico - da cui sono banditi i sottintesi gravi dell'urbanità, gli impervi pudori della grazia: incubo orrendamente letterale dove tutto 'vale quel che sembra' " (p. 90). Questa affermazione fornisce una chiave importante: se tale è l'appiattimento della realtà odierna, la prosa di Cristina Campo vi si oppone, è tutta intenta a riaprire, a tenere aperto questo varco fra essenza e sembianza, conferendo il massimo di dignità a quest'ultima in quanto contenitore di una essenza particolarissima, oggi sul punto di scomparire. Da qui il tratto aristocratico, l'estrema consapevolezza, la perfezione stilistica di questa prosa.
Ora però le nostre società hanno sviluppato una tale ricchezza di forme dell'apparire che non può essere questione di salvarle in quanto depositarie di essenza rara: questa si è già da tempo ritratta da esse, lasciando che entrino ad alimentare il gioco della "distinction" (Bourdieu). In queste condizioni, l'accusata prossimità fra essere e apparenza muta stato, comincia a delinearsi, proprio in essa, una 'chance', la 'chance' del momento: quella di un rovesciamento di questo rapporto. Non più: l'essenza subisce come una lesione "maestatis" l'identificazione alla parvenza, ma proprio grazie a questa stessa prossimità 'sceglie' di essere ciò che sembra. Operando questo capovolgimento, la diagnosi dei gravi danni inferti da una contemporaneità stolta e pachidermica innanzitutto alla sensibilità e alla sensualità umana, diagnosi che fa da contrappunto a questa prosa, invece di sfociare in delle invettive e in un conseguente aristocratico esilio, potrebbe finalmente tornare sul sensibile da cui è dettata, incominciare a com-prenderlo e dargli parola.
Esteriormente, nei loro risultati, queste due intenzioni si differenziano di pochissimo, in verità però stanno su sponde opposte: l'una su quella di un esteticismo nostalgico che rischia di rimanere vuota ri-affermazione di sé stesso, vuota perché speculare e autoreferentesi e in ciò puramente restaurativa; l'altra invece dal lato di una etica che delle forme dell'apparire estetico si serve per darsi i propri contorni e quindi, impercettibilmente, le sposta nel loro significato tradizionale. È indecidibile su quale dei due lati si collochi la prosa di Cristina Campo (eccezion fatta, forse, per i saggi sulla fiaba), perché a quello iato che differenzia le due intenzioni, viene continuamente alluso, esso viene evocato e saltato, colmato e riaperto e, con ciò, infine offuscato e cancellato, dal gioco della litote. Ne risulta un ché di cangiante di questa prosa, di cui non si sa se sia "lueur de la mort ou luminosité surnaturelle".
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