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Anno edizione: 2021
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Henri Bergson è il più necessario, il più contemporaneo dei maestri del Novecento. Poi è anche il più lontano, il più antico, il più enigmatico. Guarda le cose con lo guardo impersonale di un greco.
Bergson vede l'essere, non gli enti. Pensa la natura, non l'umano. Crede che il pensiero sia una cosa, disposta nell'universo, non una funzione del cervello o la prestazione di un soggetto. Poi, il pensatore più francese d'Europa è forse cinese. Osserva eventi impersonali, rileva equilibri momentanei, valorizza confluenze che non hanno altro fondamento che il loro breve annodamento. Pensa senza fondamento, pensa per superfici sottilissime, prive di qualsiasi spessore, aliene a qualsiasi illusione di significato. Infine è il mago, il veggente che ha parlato con un secolo di anticipo del nostro mondo, delle nostre inquietudini, delle nostre speranze. La tentazione del negativo, della denuncia, della nostalgia gli è stata radicalmente estranea. Bergson pensa che tutto sia immagine, ma non pensa che quindi sia sembianza, illusione, manipolazione. Pensa piuttosto che tutto sia immagine e cioè disseminazione di doppi, moltiplicazione di eventi, disseminazione di occasioni. Pensa che tutto sia natura, materialità, concatenamento, ma non pensa che tutto sia inerte, che ci siano solo spazi inumani, meccanismi senza invenzione. Pensa che le nostre società vadano verso forme di frammentazione sempre più spinta e di coordinamento sempre più impersonale, ma non pensa che questo significhi nichilismo, annientamento etico-politico, globalizzazione tecnocratica del mondo. Pensa piuttosto che un nuovo tempo senza soggetti apra allo scenario di un nuovo tempo comune. Non decidere ma regolare, non rivoluzionare orizzonti ma riarticolare piani d'immanenza, non oltrepassare situazioni ma riconfigurare concatenamenti. Bergson il greco, il cinese, il contemporaneo ci attende all'orizzonte, dove noi siamo già senza esserci ancora.
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