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Anno edizione: 2018
Anno edizione: 2011
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È un libro che si costruisce dalle ultime pagine a ritroso. La narrazione si forma di un gruppo di momenti eterogenei tra i quali spicca la vicenda di Ràmon, i suoi soliloqui introspettivi e la sua crisi con il padre Edmundo.Tutto questo è un pretesto forse per parlare della situazione in cui versa l' Uruguay e in cui vivono immigrati a New York e giovani in cerca di un amore e di un senso. Per tutto il libro ho capito ben poco di dove l' autore volesse arrivare sebbene sul finale tutto è reso più chiaro, scorrevole e quasi avvincente nelle fasi finali di un progetto di omicidio. Lo stile piacerà certamente agli amanti della letteratura latino-americana, malinconica, esageratamente trasandata e arresa.
Signore e signori, come dice J.Saramago, siamo di fronte ad un romanziere estremamente Umano. Ferocemente Umano. "Grazie per il fuoco", scritto nel 1965, è un nero ritratto di un paese corrotto, marcio e stanco: l'Uruguay di allora ricorda molto da vicino l'Italia di oggi. Dostoevskij in "Delitto e castigo" chiese al mondo se fosse giusto uccidere una persona abietta, crudele e amorale. Mario Benedetti risponde di sì. Edmundo Budino è ricco, potente, detestabile, corruttore di anime: anche qui il parallelo è molto facile. E' giusto sbarazzarsi di persone pericolose come il Notabile, il Vecchio, come l'autore chiama Budino. Perché certe persone sono velenose, corruttrici fino al midollo: le loro parole, persino i loro sorrisi sono funesti. Da certe persone non ci si può aspettare nulla di buono. Per questo il figlio, Ramòn, decide che è giunto il momento di ammazzarlo. Per liberare un intero paese da un cancro pericoloso, che con i suoi tentacoli corrompe e ricatta la parte peggiore di ogni cittadino. Questa è l'arma di questi infami: siamo tutti uguali, ognuno di noi ha i suoi scheletri nell'armadio, nessuno può dirsi puro e innocente. Forse in parte è vero, ma alla fine, comunque vada, c'è sempre qualcuno che alza la testa, magari un popolo intero. Un libro bellissimo, che unisce una prosa elegante a riflessioni "vitali" e mai banali.
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Ci si interroga, spesso scioccamente, sul ruolo delle case editrici, in quest’epoca in chi chiunque può stampare e commercializzare qualcosa che assomiglia, spesso vagamente, a un libro. Ci si affanna, anche chi scrive, a caccia dell’ultimissima novità, alla ricerca del fenomeno giovanissimo che rivolterà la letteratura e ce la farà guardare con occhi nuovi, salvo poi togliersi velocemente dai piedi. Poi riemerge dalle brume del passato un super classico, per merito di una casa editrice, La Nuova Frontiera, scritto da un autore tutt’altro che alle prime armi, anzi defunto. E scatta la magia. Il libro in questione è Grazie per il fuoco (271 pagine, 17,50 euro), scritto dall’uruguaiano Mario Benedetti, che ha dedicato mezzo secolo alla scrittura, religiosamente, con candidatura al Nobel che non si tramutò mai in un viaggetto in Scandinavia, ed esilio per una decina d’anni da un Uruguay in preda alla più classica delle dittature da libro latinoamericano. In Italia è tornato in auge da qualche anno, dopo il successo del suo La tregua.
Pubblicato nel 1965, arrivato in Italia nel 1972 (grazie al Saggiatore), riproposto nel 2011 da La Nuova Frontiera e adesso rilanciato ancora, nella stessa traduzione di Elisa Tramontin, questo romanzo di Benedetti è una serrata sfida generazionale, in particolare fra un padre e un figlio, che si riassume in queste parole del secondo, che si leggono dopo nemmeno una quarantina di pagine: «Non sono mai stato Ramón Budiño, ma il figlio di Edmundo Budiño. Mio figlio non sarà mai Gustavo Budiño, ma il nipote di Edmundo Budiño. Perfino il nonno, negli ultimi anni, è stato soltanto il padre di Edmundo Budiño».Edmundo è un cinico, corrotto e sprezzante potente della scena uruguaiana, un uomo venuto fuori quasi dal nulla, il Vecchio instancabile, che gronda carisma, un patriarca influente che conta ad alti livelli, politici ed economici. Suo figlio Ramón è quello che soffre di questo strapotere del genitore in ogni ambito della vita, crede di non aver nulla da imparare dall’ingombrante padre, ma nemmeno sa superare le lezioni di vita che non accetta: la loro turbolenta e tesa interazione aleggia sempre, è una scintilla sempre accesa, che galleggia sulla prosa diretta e senza svolazzi di Bendetti. È in altro che lo scrittore uruguaiano sorprende, ad esempio nell’epilogo, con due voci marginali di donna, che scompaginano la scena.
Vuol tagliare i ponti col passato, Ramòn. Vuol liberarsi della strada in discesa che gli ha garantito l’influenza del padre,chiudere l’agenzia di viaggio grazie a cui vive e che ha aperto con i soldi di Edmundo, scegliere per il figlio Gustavo una strada diversa da quella spianata che hanno avuto lui e il fratello Hugo. Non un semplice taglio col passato. Pensa di uccidere quell’uomo, suo padre, che rappresenta tutto quel che di marcio c’è in Uruguay (forse di più, in chiave antimperialista e antiamericana, a dar retta all’interessante postfazione di Andrea Bajani). Mediocri, impacciati, soli, inadeguati, indecisi, incompresi, incapaci di svoltare, in una parola, normali. Sono così molti personaggi di Mario Benedetti e Ramòn non sfugge a questo profilo, che si esplicita non solo nella difficile relazione col padre, ma anche quando di mezzo ci sarà l’amore, l’amore per Dolores.
Recensione di Giovanni Leti
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