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Anno edizione: 2016
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Si tratta di un romanzo di Dostoevskij (magari giovanile), anche se non scritto da lui; di una versione semplificata di un suo libro, per esempio “L’idiota” o “Memorie di una casa di morti”, almeno. Non sto a precisare i paralleli possibili con le sue opere maggiori: un’amicizia fraterna tra due uomini diversissimi eppure in sintonia profonda; due femmes fatales, passionali, volubili e irraggiungibili; una morte sfiorata e una lunga storia di abiezione in cerca di riscatto; una quotidiana lotta contro la povertà, risolvibile solo con la periodica “mungitura” di facoltosi aristocratici; diversi delinquenti, assassini e malvagi nati, dietro i quali si aprono squarci vertiginosi sulla miseria popolare; e infine un ambiente di frivoli e supponenti privilegiati, immersi nella corruzione, nel familismo e nel classismo. Chi fra i lettori ha lamentato il lungo “tira e molla” della storia d’amore tra Fëdor e Marija non ha capito che l’autore ha drammatizzato le lettere e i documenti ritrovati, e soprattutto che dietro c’era l’operazione, in parte indotta dal materiale del romanzo (che poi è lo stesso che ispirerà il russo) in parte sicuramente consapevole, di “scrivere un libro alla Dostoevskij”: inutile ricordare come nei suoi romanzi, sia pure in maniera più complessa, l’analisi delle psicologie contraddittorie e delle pulsioni contrastanti profonde è centrale. Ultimo segreto del libro è la prosa di Brokken, che non a caso è anche giornalista: anzitutto la semplicità di una scrittura che tende alla paratassi, e poi una struttura sapientemente didascalica del discorso, che in prima battuta, nella prima riga del paragrafo presenta sempre il dato nuovo, a volte sociologico o storico, a volte il piccolo colpo di scena nella trama, per spiegarlo subito dopo nelle righe o nei paragrafi successivi. Insomma, sorpresa, mistero, e poi soddisfazione della curiosità suscitata. D’altra parte Fëdor usava i colpi di scena alla fine di ogni puntata, come tutti gli autori di feuilleton…
Stupendo. Gli anni siberiani del grande scrittore russo narrati attraverso lo sguardo del barone von Wrangel, che di Dostoevsky è stato amico fraterno per anni. Brokken rappresenta a rapide ed efficaci pennellate la peculiare società che brulica nell'inospitale steppa siberiana, commistione di fatua aristocrazia ed emarginati senza futuro, ingegneri minerari al lavoro per ampliare il paese e popolazioni nomadi fedeli a costumi antichissimi. In questo mondo lontano dallo sguardo della capitale, il giovane Dostoevsky concepisce le sue opere maggiori, affiancato e supportato dall'immancabile barone. Il romanzo di Brokken è cosi appassionante da costringere a ritmi di lettura che lasciano senza fiato, fino all'inatteso scioglimento finale. Basato su una documentazione di eccezionale ricchezza, il libro è una vera perla. Sicuramente comprero le altre opere di Brokken.
Leggere questo libro mi ha aiutato a avvicinarmi alla letteratura russa, che non ho mai frequentato molto, e credo che finalmente intraprenderò questa avventura. Il libro racconta la vicenda umana di Dostoevskij fra l'arresto come sovversivo e la riabilitazione 10 anni dopo, utilizzando i diari di quello che fu un suo grande amico e la visse a diverso titolo con lui, Alexander von Wrangler. Sono gli anni dell'esilio in Siberia e sono così magnificamente raccontati che veramente ho sentito vicina quella terra estrema e quei tempi così diversi, in cui le comunicazioni erano lente e dilatate, intense e rarefatte assieme. Lo consiglio veramente.
Recensioni
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Dopo il clamoroso successo di Anime Baltiche Jan Brokken torna con l'attesissimo romanzo su Fëdor Dostoevskij.
Le steppe siberiane sono un inferno per chi soffre la solitudine. E soprattutto il freddo. In quelle lande desolate solo talvolta, e per puro caso, potreste incontrare ovini infreddoliti e i loro pastori, uomini dai tratti ancestrali, l'anello di congiunzione tra gli indoarii e i caucasici. Sui loro volti si leggono secoli di lotte efferate tra le tribù del Gran Khanato. Gli occhi riflettono ancora il terrore per le razzie di Genghis Khan e le violenze dei cosacchi. Una terra di conquista, di cui nessun occupante può reclamare il legittimo possesso. Il fiero belato di un montone muschiato reclama la sua parte. Forse solo quel magnifico ovino può dichiararsi il reale padrone della steppa.
A metà del diciannovesimo secolo, oltre a pastori e pecore selvatiche, avreste potuto imbattervi in un curioso uomo dal flebile incarnato. Sguardo basso, andatura incerta e un tanfo di tabacco da quattro soldi sempre addosso. Ha trentatré anni e una pessima fama, nonostante l'aspetto innocuo e piuttosto trasandato. Dovrebbe essere un soldato al servizio dello zar Alessandro II, ma in realtà è nell'esercito per via di una pena di morte commutata all'ultimo istante in coscrizione a tempo indeterminato. Il reato? Aver letto Gogol in pubblico, in compagnia dei più sconclusionati e oziosi rivoluzionari che San Pietroburgo abbia avuto la sventura di ospitare. Nella Madre Russia autocrate del diciannovesimo secolo, ancora scossa dalla rivolta decabrista, la lettura di certi autori era un'attività sediziosa tanto grave quanto l'assalto armato al Palazzo d'Inverno.
Quell'uomo titubante, a cui nessuno avrebbe dato un soldo, da lì a un decennio sarebbe diventato uno dei più grandi scrittori che l'umanità abbia mai conosciuto. Si sta parlando ovviamente di Fedor Michajlovic Dostoevskij e dei celebri anni di prigionia in Siberia, seguiti all'infausto episodio della finta fucilazione, scherzo grottesco che costò la salute mentale a tutti coloro che ne furono vittime. A tutti tranne Dostoevskij. Esitante a parlarne e a scriverne, quella vicenda fu il punto di partenza da cui scaturì la parte più significativa della sua opera letteraria.
Brokken ci restituisce il fenomeno Dostoevskij dal punto di vista del barone von Wrangel, testimone in giovane età dell'episodio della fucilazione-farsa, la cui vita si sarebbe intrecciata più volte con quella dello scrittore, diventandone amico e confidente negli anni siberiani. Grazie a un attento lavoro filologico, l'autore ritrae in maniera verosimile il rapporto cameratesco tra i due, dando vita a un romanzo che, pur fondandosi su fonti attendibili, si concede il lusso di abbellire e colorire una parte della vita dello scrittore che mai potremo comprendere a pieno. Immaginarsi Dostoevskij defilarsi dietro le frasche in compagnia di una donna sposata, quell'eterna infelice di Marija, sua futura consorte, mentre l'amico intrattiene il povero marito con chiacchiere e alcol, ripagherà il lettore più aperto alla prospettiva di demistificare l'arcigno mito russo. Magari ad altri farà storcere il naso, poco convinti della bontà di tale operazione, indifferenti al ritratto di Fedor mentre apprende i rudimenti del giardinaggio dall'amico.
Probabilmente a questo tipo di lettore sarebbe più opportuno consigliare altri lavori, ma, correndo il rischio di apparire partigiani, non possiamo che esortarlo a esplorare questo curioso tentativo di realizzare una biografia romanzata. Ogni pagina del lavoro di Brokken trasuda infatti riverenza e amore per lo scrittore russo, nonostante qualche volta appaia forzato l'intento di sottolineare gli aspetti più buffi del genio. A tal proposito non bisogna dimenticare che il reale protagonista è il barone von Wrangel, la cui caratterizzazione viene modellata in modo tale che il lettore, pagina dopo pagina, sia portato a immedesimarsi in lui. Dietro al suo sguardo, colmo di stupore e fascino per quell'uomo inconsapevolmente destinato alla gloria, si nascondono in realtà gli occhi di ogni appassionato di Dostoevskij.
Per questo motivo ci troviamo di fronte a un romanzo celebrativo, ma in fondo a chi può realmente interessare un grigio e impersonale ritratto dello scrittore russo? Ben vengano questi arditi esperimenti letterari.
Delle edizioni critiche de “I demoni” e delle biografie “serie” sono colmi i nostri scaffali. Giacciono intonse, in attesa che qualcuno si prenda la briga di sfogliarle. A noi piace Brokken. A noi piace Dostoevskij innamorato e ubriaco.
Recensione di Matteo Rucco
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