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Profumo di vaniglia e semi di papavero, un vassoio nichelato con sottili mezzelune lasciate dal fondo dei bicchieri, piccoli tram azzurri, gialli e verdi che si rincorrono tintinnando, il cancello di un parco dietro il quale spuntano cervi e cerve, «come ragazzini di buona famiglia di ritorno dalla lezione di piano». All’inizio di questo romanzo c’è un pullulare di sensazioni, una nube tattile, olfattiva, onirica, che si sposta in una cauta esplorazione del mondo, come l’occhio del bambino Andreas, il narratore. La parola «morte» trafigge questa nube, è un numero fatale stampato sul buio. E il bambino gioca con il sonno, gli tende agguati, in preparazione alla grande lotta con la morte. Aveva deciso di «assistere un giorno consapevolmente alla venuta della morte e così vincerla», e nell’attesa voleva sorprendere l’angelo del sonno.
Intorno ad Andreas, vediamo la sorella Anna, che piange la sera perché il giorno è finito e non torna più; e la madre Marija, seduta davanti a una imponente macchina da cucire Singer di ghisa nera. E soprattutto vediamo, seppure soltanto in apparizioni imprevedibili e balzane, il padre Eduard Sam, ispettore delle ferrovie a riposo, ma in realtà trickster decaduto, che non dispone più di molti poteri, eppure è ancora aureolato di eventi prodigiosi e irrisori. Autore di un Orario delle comunicazioni tranviarie, navali, ferroviarie e aeree che, arricchendosi di edizione in edizione, si trasforma in opera interminabile, come una mappa che volesse coincidere con il territorio rappresentato, Eduard usa mostrarsi con bombetta e redingote imbrattata, e sfida l’iniquità del mondo dietro occhiali con montatura metallica, stringendo in pugno un bastone. Compreso della sua vocazione di mistificatore, non è mai se stesso, ma il nebbioso ricordo di qualcos’altro, e il giovane Andreas, fantasticatore selvaggio, percepisce in lui la compresenza di molte vite: «Ed eccolo, mio padre, seduto nel carro accanto a una giovane zingara dalle poppe rigonfie, maestoso come il principe di Galles o, se volete, come un croupier o come un maître d’hôtel (come un illusionista, come un impresario di circo, come un domatore di leoni, come una spia, come un antropologo, come un maggiordomo, come un contrabbandiere, come un missionario quacchero, come un sovrano che viaggi in incognito, come un ispettore scolastico, come un medico di campagna e, infine, come un commesso viaggiatore, rappresentante di una compagnia occidentale per la vendita dei rasoi di sicurezza)». Un giorno, in un raro momento di sobrietà, Eduard accenna al figlio il suo segreto: «Non è possibile, giovanotto mio, e questo ricordatelo per sempre, non è possibile recitare la parte della vittima per tutta la vita senza diventarlo alla fine davvero». La storia si incaricherà presto di avverare la profezia.
In una continua osmosi di sensazione e visione, questo romanzo raggiunge una precisione evocativa che penetra nelle fibre della mente, in un modo che ricorda Bruno Schulz. Qui, come una splendida carovana di stracci e paccottiglia, ci sfila davanti il mondo saturo di esperienze dell’Europa centrale mentre sta per abbandonarsi alla morte, visto con gli occhi del bambino sognatore e ribelle che alla morte voleva dare scacco.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
L'autore compie in questo libro un percorso lirico di immersione nella propria memoria e ricostruisce la propria infanzia attraverso la misteriosa figura del padre, che diventa sempre più centrale via via che la narrazione procede. Il racconto oscilla di continuo tra il piano tragico della storia del Novecento e quello invece fantastico tipico della visione dei bambini e attraverso allusioni e suggestioni riesce a far rivivere un mondo ormai perduto.
Questo libro di Kiš -opera iniziale di una trilogia che l’autore dedica alla propria famiglia, alle proprie radici- fa pensare a due quadri. Il primo rappresenta uno sfondo fatto di luoghi, di colori e di profumi. Uno sfondo che cambia, che sfuma i suoi contorni nelle stagioni, che alterna l’ombra indistinta alla luce più viva. L’altro quadro è invece una semplice cornice vuota, dentro la quale entrano ed escono dei personaggi. I due quadri si possono osservare come realtà distinte, oppure si possono sovrapporre e allora si otterrà un’opera complessa, un’opera che è il percorso dell’autore attraverso la memoria del proprio passato, un'opera dove ogni frammento va a comporre un'intera infanzia. Un’infanzia ricca di cieli, di alberi, di sguardi alle persone e alle cose, a sottolineare la forte commistione tra "esterno" e "interno", tra natura ed emozioni, quelle che il cuore percepisce ancor prima che nella mente divengano consapevolezza, pensiero. Lo consiglio a chi cerca qualcosa di originale e soprattutto della forma dello stile.
Recensioni
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scheda di Ventavoli, B., L'Indice 1987, n. 2
Le due parole di questo titolo inconsueto sono le coordinate dell'intero spazio narrativo del romanzo. Da una parte il "giardino", l''hortus conclusus' dell'infanzia di Andreas Sam, fatto di idillici castelli e case che sembrano biblici Eden perduti. E dall'altra parte, la "cenere" di un mondo, quello a cavallo tra Ungheria e Jugoslavia, provinciale e contadino, monotono e ordinato, scomparso per sempre dopo la seconda guerra mondiale. Il romanzo è una lunga impressionistica sequenza di immagini, ricordi, profumi, un viaggio a ritroso nella memoria, dove l'unico vero eroe è il padre, Eduard Sam. Intellettuale fallito, ispettore delle ferrovie, cialtrone e panteista, ma soprattutto ebreo errante mitteleuropeo con la vocazione a stilare immense 'summae' librarie che annullino la distanza tra cielo e terra, questa figura favolosa di genitore appare e scompare nei ricordi del bambino portando con sé, le schegge della Storia, gli echi dell'olocausto e della seconda guerra mondiale, di eventi insensati e crudeli che rivelano la forza oscura e immanente della morte. Questo romanzo del '65, che compare in italiano dopo altre operi precedenti, ha consacrato Danilo Kis alla notorietà internazionale.
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