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Il pregio di questo libro, sofferta corrispondenza fra giudice e condannato, è quello, se non di far cambiare idea sull'ergastolo ostativo, di sollecitare almeno la riflessione su questa condanna terribile, solo un gradino sotto la pena di morte. I due protagonisti nel corso dei decenni perdono il ruolo che ricoprivano durante il processo, per essere solo due uomini che si raccontano dove li abbia portati la vita, nati su fronti opposti per volere di un caso che li ha collocati in mondi diversi, dato che sì, la consapevolezza di essere quello che sono grazie e a causa del loro milieu è leggibile fra le righe. Ovvio che i rei debbano essere condannati, che la giustizia faccia il suo corso, tutto ciò non viene messo in discussione, ma anche i criminali più incalliti possono trovare una strada di parziale riscatto: compete allo stato, non sempre attento al mondo delle carceri, valorizzare e incoraggiare questa risalita e non ostacolarla nelle solite pastoie ottuse che spesso guardano al codice e non al percorso individuale.
Lessi questo libro nel novembre del 2022 e ricordo che ci impiegai nemmeno un giorno a terminarlo. Questa fu una delle letture che ci consigliò il mio Professore di diritto penale, soprattutto per il tema dell' art. 41 bis, molto discusso ancora oggi. Il fatto che comunque questa fosse una storia vera, mi ha in qualche modo rapito il cuore durante la lettura, e leggere questo scambio di corrispondenza è stato interessante. Questo sono dell'idea sia un libro che faccia parte di quelli da leggere assolutamente almeno una volta nella vita, a prescindere che si studi giurisprudenza o meno. Ve lo consiglio, è molto scorrevole e vi prenderà dalla prima all'ultima pagina. Cinque stelle meritatissime.
Un libro che fa riflettere e commuovere. La storia di Salvatore insegna che se c'è la volontà il riscatto è sempre possibile.
Recensioni
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Chi non conosce come si diventa giuristi in Italia può stupirsi di quanto poco essi conoscano del mondo carcerario. Spesso, ancora oggi, può accadere che lo studente di giurisprudenza in tutto il suo corso di studi non abbia occasione di varcare quella soglia oltre la quale vengono depositati i cosiddetti criminali. Anche quando si diventa operatori della giustizia la conoscenza di quel mondo è sovente superficiale, sfocata, non fondata sull’esperienza umana del contatto con custodi e custoditi, sulla percezione materiale del sinistro suono dei chiavistelli e di quell’indefinibile odore di cibo precotto che si sente camminando nei corridoi delle sezioni detentive.
Il libro di Elvio Fassone narra la progressiva scoperta di questo mondo da parte di un giudice coinvolto in un rapporto epistolare, durato più di venticinque anni, con un recluso che egli stesso ha condannato all’ergastolo. Conoscenza, quindi, maturata per mezzo del racconto, prima sgrammaticato poi via via più articolato e maturo, formato dalle lettere che gli giungono, con intervalli irregolari, da una persona che ha avuto modo di conoscere come imputato nel maxiprocesso di Torino ai clan della mafia catanese del biennio 1988-1989. Salvatore, l’ergastolano protagonista del libro, è incarnazione ed emblema di quella società dei cattivi, che perde ogni contatto con quella dei buoni cittadini e il percorso criminale assume i contorni di quello che i sociologi del crimine hanno chiamato “la profezia che si autoadempie”. Emblematiche in tale prospettiva due frasi che Salvatore rivolge a Fassone in tempi diversi. Ricordando la figura del fratello Carmelo, ucciso da un clan rivale: “A noi siamo maledetti, o la tomba o la galera. Che vuole che ci aspetti, a chi nasce nel Bronx di Catania?”. In un colloquio durante il processo, quando chiede al giudice se ha un figlio: “Perché le volevo dire che se suo figlio nasceva deve sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo”. La maledizione sociale di essere nato in un certo quartiere, di aver frequentato certe compagnie, di aver intrapreso una carriera deviante sin dall’adolescenza e quindi essere entrato nel circuito penitenziario è il filo rosso che lega tutta la vicenda del protagonista. La vittima, dibattendosi per sfuggire alla ragnatela che lo avvolge, non fa che avvilupparsi ancor di più nelle spire di un destino dal tragico epilogo.
Recensione di Claudio Sarzotti
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