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Sottile autobiografia di Roth, che rivela i primi fatti della sua vita, insieme ad altri che son dietro i suoi primi romanzi, in una lunga lettera al suo caro Zuckerman, personaggio delle sue opere che più gli somiglia. Il modo è interessante, la storia forse meno, o almeno fino a che non prendere la parola Zuckerman, solo allora viene fuori l'acume, l'ironia, l'intelligenza di philip roth. Solo nelle parole della sua creatura diventa veramente biografo di se stesso, rivelando la vera storia delle sue ragioni, delle sue intenzioni. Libro dunque interessante, sia per i fatti narrati, sia per l'arguzia con cui tutto quello che viene raccontato è subito dopo capovolto.
Scrivere come potere taumaturgico, come bisogno per uscire fuori da una disistima profonda. Roth non dà enfasi alla sua autobiografia, sembra un entomologo. La scrittura è sempre una panacea contro gli sbandamenti del cuore, contro l’odio e l’amore. La parte migliore. Lo stile di Roth, unico e bellissimo, è tradotto con maestria da Vincenzo Mantovani.
La sensazione che ricavo dalla lettura di questa falsa autobiografia, dopo aver letto tanti romanzi di Roth, è che fosse un esercizio di cui lui sentiva il bisogno (forse su suggerimento del suo analista, visto che in quel periodo era in cura per lo stress postoperatorio di una peritonite che lo aveva messo a dura prova anche mentalmente) ma i suoi lettori molto meno. Dal modo in cui racconta porzioni selezionate del proprio passato, infatti, non si fa luce sui momenti decisivi della trasformazione dell'uomo in autore, e nemmeno si penetra nel sottosuolo che dovrebbe contenere l'energia che lo ha spinto in quella direzione. Non che lo scopo potesse essere quello di saperne di più su di lui, ma almeno di capire qualcosa in più sulla sua vicenda di uomo, quello sì. E in sostanza ciò non accade, il che è una delusione. Sa poi di puro artificio l'idea di fingere una replica della sua creatura Zuckerman, la cui voce va ad aggiungersi al coro di quanti ciriticano continuamente l'autore; al massimo, in questo modo, si trova la conferma che Philip Roth - almeno per molti anni della sua vita - ha sentito gravare sulla sua testa in modo eccessivo il giudizo altrui. Ma anche questo era già noto! «La mia ipotesi è che tu abbia scritto così tante metamorfosi di te stesso da non sapere più né chi sei né chi sei mai stato» (p. 169), scrive il falso alter ego. Ecco, forse non è il caso di continuare un'indagine del genere che, oltre a rivelarsi impossibile, finisce per risultare inutile.
Recensioni
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"Da bambino credevo ingenuamente che avrei sempre avuto un padre al fianco, e la verità sembra essere che sempre lo avrò."
Philip Roth ci ha abituati a inseguire i continui giochi di specchi tra vita e narrazione disseminati all'interno dei suoi romanzi; così fitti che spesso il confine tra invenzione romanzesca e autobiografia si annulla. Roth è un uomo schivo ma non si è mai risparmiato nascondendosi dietro ai suoi personaggi, muovendosi e parlando come loro, in maniera più o meno evidente. In alcuni romanzi compaiono personaggi che si chiamano addirittura Philip Roth ma non sono Philip Roth. La trasfigurazione letteraria è inevitabile. Nathan Zuckerman, il suo alter-ego più noto e più riuscito, appare nei romanzi sia come narratore che come protagonista, complicando ulteriormente i piani della finzione.
Anche nei Fatti, Roth si nasconde dietro il suo personaggio. I fatti non è solo un'autobiografia, ma l'autobiografia di un romanziere, e un romanziere come Roth, della cui vita reale sappiamo tutto e niente, non può certo limitarsi a raccontare i fatti. Quando ci racconta la sua adolescenza non possiamo evitare di pensare che sia uno dei suoi personaggi a parlare. Esattamente come quando dietro le storie dei suoi personaggi non possiamo evitare di pensare alla sua biografia, a lui in quanto uomo. Così, quando in apertura immagina di scrivere una lettera a Nathan Zuckerman, chiedendogli un'opinione sull'opportunità di pubblicare I Fatti, è come se volesse ribadire di nuovo la vittoria della fiction, ricordandoci che ci stiamo raccontando storie e che nient'altro conta.
In seguito a una crisi emotiva ed esistenziale che lo ha condotto all'esaurimento, Roth è obbligato a ripensare la sua vita e la sua letteratura. In questo romanzo autobiografico, dunque, interroga il suo passato cercando di stringere i fatti nel nodo di un'ipotesi persuasiva che chiarisca il significato della sua storia.
Roth isola cinque momenti significativi della sua vita: l'infanzia felice e tranquilla nella comunità ebraica di Newark negli anni Trenta e Quaranta, circondata dall'affetto dei genitori; l'educazione alla vita americana durante gli anni universitari e i primi racconti; l'indipendenza a Chicago e il tormentato rapporto con Josie, una ragazza sfrontata, dotata di una perversa immaginazione, capace di tutto - la nemesi di Roth, eppure proprio "la ragazza dei sogni" che diventerà sua moglie, di cui racconta in La mia vita di uomo; lo scontro con l'establishment ebraico in seguito alla pubblicazione di Goodbye, Columbus; la separazione da Josie, un nuovo amore, la maturazione del talento che lo porterà al Lamento di Portnoy, il romanzo che determinò tutte le sue scelte negli anni Settanta.
In mezzo a tutto questo bellissimo racconto ci sono le trame di tanti romanzi. Dell'anzianità del padre, Roth scriverà in un altro romanzo autobiografico, Patrimonio. Una storia vera (anche qui vediamo come il titolo giochi sul rapporto tra narrazione e vita). "Esistere significa, per me, essere il Philip della mamma, ma, nei difficili rapporti col mondo e le sue botte, la mia storia prende il via dal fatto che all'inizio fui il Roth di papà", scrive, analizzando il collegamento viscerale che lo unisce alla madre e il senso del dovere, l'ostinazione, l'illusione, il risentimento e la devozione che ha ereditato dal padre. Del rapporto con le donne della sua vita invece recano traccia quasi tutti i suoi scritti.
Chiude il libro una bellissima lettera di Zuckerman che risponde a Roth: "Ho letto il manoscritto due volte. Ecco la risposta sincera che chiedi: non pubblicarlo; te la cavi molto meglio scrivendo di me che facendo una cronaca «fedele» della tua vita. [...] Nella fiction puoi essere molto più sincero senza doverti continuamente preoccupare di fare del male a qualcuno. [...] Il tuo dono non consiste nell'impersonare la tua esperienza ma nel personificarla, nell'incarnarla nella rappresentazione di una persona che non sei tu. Tu non sei l'autore di un'autobiografia, sei un personificatore". È una lettera bellissima sulla scrittura e sul potere della finzione. Di nuovo le parole più autentiche e intense Roth le affida a Zuckerman.
Recensione di Sandra Bardotti
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