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Non riesco a pensare ad altro che a un grande libro sul silenzio. Il vagare di uno sguardo lungo macerie e pericoli ancora presenti nel quale ormai si tocca con sconforto chiaro una presenza di mani perdute, di assalti privi di senso, di trincee terrorizzate, di speranze andate in fumo. Echi dolorosi, polveri ancora calde, una guerra che dilania ogni fibra e la certezza di qualcosa che resta sospeso, come inadempiuto nei destini dei popoli: "La storia non sarà finita con questa guerra, e neanche modificata essenzialmente, né per i vincitori né per i vinti. E forse neanche per l'Italia". Se allora dev'essere questo lo sfondo e se un uomo può sforzarsi di tradurre su pagina i propri nervi, meglio tentare, certi tuttavia che neanch'essa si incaricherà di cambiare sorti e leggi della vita, di farne letteratura. Un secolo o poco più è trascorso da questo libro meraviglioso, cronaca e sfogo di un'anima grande, breve invettiva e resoconto poetico insieme, ritratto esemplare di giorni incandescenti, di posizioni politiche e intellettuali divise, di un Paese smarrito. E prevale un profondo stato d'angoscia attorno al futuro deficitario da affrontare, a un avvenire da compiere, a strade da preparare per le genti sopravvissute "nonostante l'Italia sembri abbandonata come un pezzo di legno morto fuor della corrente della storia". Serra, letterato finissimo, aveva nel sangue la chiamata del veggente, se ne sarebbe andato di lì a pochi mesi nella terza battaglia dell'Isonzo, trent'anni appena. E la bellezza di questo libretto è quest'ombra impressionante che grava sulla scrittura, perché non si sa se questa sia la guerra o sia invece la letteratura. La ferocia di spari e granate o l'illusione di renderne traccia con parole forse affidate al vento. Onestà sublime! "Ognuno deve tornare al suo cammino, al suo passato, al suo peccato", e anche un attimo eterno nel quale fra compagni affiora un sorriso diventa la china di una fatalità contraria, di un cielo personale già deciso.
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