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Ho trovato questo romanzo un po' insipido, non mi è piaciuto granché. Ho apprezzato molto invece la solitudine dei numeri primi.
Mi aspettavo qualcosina di più, sulla parte finale si è un po' perso. In generale non ho amato nessun personaggio, tutti mi sono stati antipatici fin da subito, ognuno per un motivo diverso e non ho empatizzato con nessuno di loro. Una lettura estiva scorrevole, senza dubbio, ma nulla di più per quanto mi riguarda.
Dopo diversi anni dalla lettura de "la solitudine dei numeri primi", che reputo davvero strepitoso, ho ricevuto in dono questo libro, che ho iniziato a leggere con aspettative altissime. Invece l'ho trovato davvero noioso, mi sono sforzata per finirlo. Personaggi poco credibili, scenari inverosimili, a tratti assurdi ..... Veramente deludente
Recensioni
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Due anni fa ho avuto l’onore di partecipare al Premio Strega e il privilegio di farlo senza avere reali possibilità di vittoria, cosa che mi ha permesso di osservare il rito e i suoi effetti con il necessario distacco: nel corso di quei mesi mi colpì in particolare un fatto: quando la favorita era Teresa Ciabatti con La più amata, nella “bolla” del campo letterario, critico ed editoriale, che si allarga fino a blogger e lettori fortissimi, stavano tutti per Paolo Cognetti e Le otto montagne; quando però poi Cognetti ha vinto, sono tornati tutti ciabattiani. Il fatto è tanto più curioso perché si trattava in entrambi i casi di romanzi eccellenti, firmati da autori di solida fama letteraria: pure, la loro stessa letterarietà veniva messa in dubbio non appena si profilava all’orizzonte la possibilità di un successo commerciale. Le stesse persone che si sperticavano in elogi per lo stile icastico e puntuale del Cognetti dei libri minimum fax, ora erano in prima fila ad affibbiare a quello (invero ancora più compiuto) del Cognetti Einaudi e “stregato” la degradante etichetta di midcult.
Devo in effetti l’idea di questo pezzo a un redattore di linus, Ivan Carozzi, che notava come un romanzo solido come Divorare il cielo di Paolo Giordano fosse passato sotto silenzio nella “bolla”.
Ora, è vero che un libro che va in classifica può anche infischiarsene della bolla; pure, Divorare il cielo è talmente superiore, per la forza con cui tiene assieme trame e sottotrame, e per la pura capacità scenografica dell’autore, a tanti più celebrati romanzi usciti nello stesso periodo, da far venire il sospetto che esista, in Italia, uno stigma del successo, sorta di opposto morboso di quella “stairway to stardom” che gira così bene nel mondo anglosassone.
Vanni Santoni
C’è un po’ di tutto in Divorare il cielo. La spensieratezza delle vacanze da adolescenti. La forza struggente di sentimenti capaci di divorare l’anima. I drammi e le contraddizioni di una giovinezza anticonformista. L’eccesso di spiritualità e di una natura vissuta in maniera estrema.
Tutto raccontato con gran ritmo e incontrollata turbolenza emotiva da Teresa.
Dalla regolarità della vita torinese alle rituali vacanze in Puglia. Nuovi legami ed esperienze al limite dell’esoterico. Bern, figlio non figlio, fratello non fratello, tanto inaccessibile da risultare irresistibile. Il fascino misterioso di inconsueti concetti di spiritualità. E l’estremo rispetto per la Natura, prima di tutto.
Poi si cresce. I legami sembrano sgretolarsi per poi tornare a saldarsi in maniera ancor più solida. La masseria al centro di tutto. E ancora quella sorta di rispetto accecante, fin fastidioso, nei confronti dei ritmi della natura; roba che, a confronto, il biodinamico risulta pratica invasiva.
Ma ormai anche la vita di Teresa è diventata quella roba lì. Forse per convinzione, forse per compiacere Bern e i suoi compari. Una simbiosi apparentemente perfetta tra donna, uomo e natura; dov’è quest’ultima, però, a dettare i ritmi.
Vent’anni di Teresa scanditi a ritmo notevole alternando episodi vissuti in prima persona a racconti in flashback; il tutto a comporre un puzzle letterario avvincente e ben congegnato. Personaggi interessanti, quelli che ruotano intorno alle figure di Teresa e Bern. E tanti risvolti amari in una storia sentimentalmente tutt’altro che lineare.
Passa in fretta, il libro di Paolo Giordano, come i bei libri. E lascia in bocca il gusto agrodolce di quando non capisci bene se il finale sia ciò che avresti voluto oppure no. Perché, va bene tutto, ma per fare una cosa del genere non devi essere proprio in quadro…
Sono 430 pagine di scrittura densa, magmatica, questo nuovo romanzo di Paolo Giordano. Una scrittura che scorre lenta e piena sopra la curva degli eventi, tanto da rimanerci invischiati per alcuni giorni.
Quattro protagonisti, una storia suddivisa in tre parti, quasi tutta ambientata in una masseria in Puglia, vicino a Ostuni. Intorno alla vicenda personale dei quattro ragazzi, molte storie più grandi di loro e di noi. Torna al romanzo di formazione Paolo Giordano - dopo aver conquistato una fama fulminea forse effimera con La solitudine dei numeri primi – ma da uomo di scienza prima che di lettere, lo fa con un romanzo intenso e gravido, scritto con la precisione del thriller, dove però il delitto è soltanto la vita comune di quattro ragazzi.
Teresa all’inizio del racconto è una giovanissima studentessa di Torino, che passa le sue vacanze estive nella grande villa di sua nonna, in Puglia. È guardando fuori dalla finestra della sua torre d’avorio che scorge per la prima volta Bern, Nicola e Tommaso. Sono nudi e nuotano nella sua piscina, hanno scavalcato la recinzione di notte, vengono dalla masseria che si trova a poche centinaia di metri da casa sua.
La masseria attrae Teresa come il miele velenoso attira la mosca dell’ulivo. Tra quegli antichi muretti a secco, oltre il tratturo, ci sono Cesare e sua moglie, e poi ci sono di volta in volta ragazzini sempre nuovi, non proprio fratelli tra di loro, ma quasi. Sono i bambini dati in affidamento alla coppia. Nella masseria con Bern, Nicola e Tommaso, Cesare applica alla lettera le sacre scritture e recita lunghi sermoni, obbligando tutti al lavoro nei campi. La masseria è una Chiesa delle origini, un Eden prima che si compia il peccato originale. Almeno finché non arriva tra loro la ribellione.
La storia inizia in questa maniera, come inizia la storia del mondo, con una donna a sconvolgere la tranquillità della natura. E prosegue come prosegue la storia del mondo, tra amore, colpe e tradimenti. Nel mezzo c’è il racconto della vita nei campi coltivati con il metodo biologico, l’utopia di un gruppo di giovani che producono senza consumare risorse idriche o energetiche, c’è l’integralismo di chi difende gli ulivi secolari dalle ruspe, ma anche un’incessante, spossante, avvilente lotta contro la natura ostile: il raccolto rovinato dalla grandine, la Xylella, gli embrioni che non attecchiscono e quelli che invece crescono e si moltiplicano in ventri di ragazze minorenni.
Nel nugolo di queste quattro vite, tutte intrecciate e dipendenti, tutte conficcate l’una nell’altra pur avendo radici sottili e volatili, l’autore riesce a tracciare una storia potente e drammatica. Sin dall’inizio l’odore acre della morte si insinua nel racconto: il giardino dell’Eden ha in sé la gioia e anche il dolore, la benedizione e la dannazione. L’amore è imperfetto, è questo il messaggio più forte che ci restituisce questo romanzo, lo dice bene Paolo Giordano quando la sua riflessione si allarga alla vita di tutti.
Questa volta l’autore estende e approfondisce - portandolo all’estremo - il tema che gli è più caro: la fuga e il rifiuto della società borghese. Per farlo, con Divorare il cielo, arriva dritto fino al ventre del mondo.
Recensione di Annalisa Veraldi
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