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Anno edizione: 2016
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Libro eccezionale, che dice del dramma e della violenza della colonizzazione. Autore in grado di usare la lingua in modo originale e meditativo.
Il mio primo approccio alla narrativa africana. Il racconto è solenne, quasi epico; il protagonista potente e controverso. Lo stile è dritto: nessun onanismo cerebrale, niente sciccherie fantastiche. Giudizio molto positivo, tanto che ho già acquistato gli altri due racconti della trilogia.
Un libro che può o meno piacere ma ch è assolutamente da non perdere perché ci fa vedere l,' Africa finalmente dal punto di vista dei nativi africani.
Recensioni
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Un uomo e il suo villaggio, lo scorrere del tempo scandito dalla venuta delle piogge, un preciso senso del bene e del male.
E poi, all’improvviso, un urto mortale. La Grande Storia, tutta eurocentrica, irrompe prepotentemente. Quel mondo inizia a vacillare e, lentamente, a cadere.
Chinua Achebe ci conduce nella vita di Okonkwo, un uomo temuto e rispettato, che deve i suoi traguardi alla volontà di essere diverso dal padre. Egli è il più grande guerriero di Umuofia, villaggio ibo nigeriano dove le tradizioni tengono vivo il passato intrecciandolo alla quotidianità, e il magico è vissuto come sacra abitudine. L’autore, adottando una prospettiva privilegiata perché “locale” consente di abbandonare gli abituali riferimenti spazio-temporali e, solo quando entrano in scena l’uomo bianco e le sue armi, si viene violentemente rimandati alla Storia. Questa irruzione risulta fastidiosa, stonata: inopportuna.
Il lettore si scopre così immerso nella narrazione, tanto da dimenticare di conoscere già quale sarà il corso degli eventi, da sperare che, in un modo o nell’altro, gli abitanti di Umuofia sapranno scacciare questi estranei prepotenti, col loro unico dio geloso e la loro incomprensibile giustizia.
Chinua Achebe narra con stile agile, immediato, arricchito da proverbi e modi di dire, strofe di canzoni, inflessioni talvolta intraducibili, catturando incredibilmente il lettore. I passaggi descrittivi sono sempre puntuali: dipingono un mondo lontano, che va descritto per essere compreso intimamente oltre che per poterselo figurare.
Chinua Achebe ha rappresentato una delle voci più autorevoli della letteratura africana. Le cose crollano costituisce il primo libro di una trilogia, di cui fanno parte anche Non più tranquilli e La freccia di Dio.
di Marta Casale
Si ringrazia il Master Booktelling
Le cose che crollano, nell’Africa occidentale di fine Ottocento in cui il romanzo è ambientato, sono quelle che hanno sostenuto per secoli l’esistenza comunitaria del popolo igbo. Sono quelle in cui ha sempre creduto Okonkwo, protagonista del racconto, che muore suicida perché vede scomparire i valori del clan e i costumi del suo vissuto. Nel suo mondo tutto si disgrega, crolla, va a pezzi, mentre si sgretola la narrazione identitaria che ha tenuto insieme nel tempo famiglie e villaggi di Umuofia. Il romanzo si colloca in un momento di rapida trasformazione della società igbo.
Il tessuto sociale perde vigore e si sfascia sotto l’impatto violento dell’Europa imperialista e cristiana. Ma, secondo quanto narra Achebe, fattore concomitante di questa rovina generale è la debolezza intrinseca di quel mondo legato al passato, la sua rigida incapacità di adattarsi al cambiamento. Il romanzo ritrae perciò sia la tragedia della conquista, che quella del collasso interno. Ciò che rimane dopo il crollo è l’inizio di un lungo e faticoso processo di accomodamento, ma anche di appropriazione attiva della cultura occidentale per quanto può servire alla riconfigurazione e al rinnovamento del sé individuale e collettivo, dato che non si può tornare indietro nel tempo: è impossibile negare la storia. Lo scrittore si assume dunque il compito di riscrivere la storia africana, distorta o cancellata dalla storiografia europea, da una prospettiva interna ad essa, e ritorna al passato precoloniale non per nostalgia di quel passato, che comunque è perduto, ma perché esso costituisce la base ideologica per il suo controdiscorso: è il terreno di una storiografia alternativa. L’originalità di Le cose crollano sta proprio nello spostamento del punto di vista, nel fatto che assume una prospettiva ontologica africana, piuttosto che storiografica europea.
Due terzi del romanzo sono interamente dedicati alla ricostruzione della società igbo nella seconda metà dell’Ottocento, e i bianchi, l’Europa, l’Occidente non sono affatto al centro dell’azione, come nei romanzi coloniali della tradizione inglese, ma esistono solo in rapporto e in funzione al mondo nero. La rappresentazione degli “alieni”, che a poco a poco s’infiltrano nel clan di Okonkwo e gettano scompiglio fra gli abitanti di Umuofia, fa uso dei mezzi espressivi e dei punti di riferimento a disposizione degli igbo nella prima fase del colonialismo britannico. all’inizio queste creature leggendarie – che vengono prese per albini essendo bianche come il gesso, che hanno piedi senza dita e portano vetri sugli occhi – appaiono proprio ai margini del racconto. Il bianco è un oggetto visto dall’esterno e misurato in rapporto a ordinary men like us: gli igbo, i neri. (…)
Recensione di Annalisa Oboe
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