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Lo spunto è un'intuizione di Blanchot, che distingue la cultura dalla letteratura: la prima è un concetto consolatorio, che tende a unificare ciò che la letteratura (che dice al lettore "le cose sono più complicate di quanto tu pensi") prova a proporre come irriducibile, singolare: la cultura normalizza la letteratura, facendone un valore astratto (né Kafka né Omero scrivevano per "fare cultura"). Visto che il soggetto istituisce il suo rapporto con la realtà basandolo sulle parole e vivendo in un universo soprattutto simbolico (Cassirer), l'a. propone una differenza tra discorsi filosofico (tendente ad omogeneità e rigidità) e letterario, in cui le parole riescono ad esprimere non tanto i valori universali (quelli della cultura) "quanto piuttosto la molteplicità stessa delle diverse e singolari esperienze degli uomini". Citando Heidegger, il discorso filosofico non sarebbe in grado di render conto della singolarità dell'esperienza: difatti tutti i grandi temi esistenziali di "Essere e tempo" sarebbero già stati "svelati, mostrati, illuminati da quattro secoli di romanzo". L'esigenza è quella di una "parola vera", una parola che "sappia ancora rendere giustizia ... al bagliore della realtà, al dinamismo della vita e alla concreta effettualità del singolo". Il valore fondante della letteratura sarebbe quindi liberare le parole dal giogo del senso comune (ma non è quello che fa anche la filosofia, da Eraclito ad Heidegger)? L'argomentazione pare prestare il fianco ad alcune critiche: oltre al contraddittorio uso di citazioni filosofiche per avvalorare la preminenza di quello letterario, dire che il medium in grado di render giustizia dell'umana esperienza "non può essere il numero ma è la lettera" (p. 54) non è dirimente nella distinzione proposta tra i due discorsi. Il punto cruciale è forse allora non tanto quest'ultima, quanto l'ineffabile dell'esperienza soggettiva, unica e imprevedibile, delle diverse letture che ciascuno di noi può fare di ogni singolo testo.
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