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Anno edizione: 1986
Anno edizione: 2015
Anno edizione: 1986
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Poesie e brani veramente raffinati che sanno far riflettere
L'impossibile florilegio, ma sempre riuscito se se ne occupa Ceronetti, di una vita; semi gettati a perdere che la gioia raccoglie sotto balconi decrepiti...garze strappate via dalla ferita d'esistere, perché le traiettorie del corpo devono comunque far sgorgare le ansie scarlatte di dentro...impotenza e gesto unite in mormorii di alleati, Maestri che il Maestro recepisce e sversa sulla pagina col tributo di un Pari ispiratissimo, rotte del cuore che trova fra le rovine di un cielo purulento le meraviglie che nessuno frequenta, o pochissimi, o solo Dio. Diario magnifico, vite e parole scriteriatamente intinte nella perfezione, da Seferis a Celine, dal Qohelet a Zola, e tanti tantissimi altri a negare e sputare sui respiri dell'ovvio, su menti pacificate, su misteri e percorsi che solo la poesia può descrivere, in quel suo farsi assenza e insieme totalità. Silloge di solitudine meravigliosa, animi senza tempo che Ceronetti traduce e invita come in una storia condivisa, flagellata, celeste asprezza e genio maciullato. Non può mancare ai mancati questo libro necessario.
Recensioni
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recensione di Mengaldo, P.V., L'Indice 1986, n. 4
Non c'è dubbio che il Ceronetti traduttore di poesia è di gran lunga superiore al poeta in proprio, mediocre, e anche al prosatore, sempre più vaticinante e tenebroso, vagamente jettatorio. Si vorrebbe perciò consigliare il lettore di gustarsi le versioni raccolte in questo libro prescindendo del tutto dal saggio post-fatorio. Non dovrebbe arrossire per l'autore di fronte all'impudicizia di dichiarazioni come questa: "La morte mi troverà (e così voglio mi trovi) sempre più avido di essere "umano" e sempre più disperato di esserlo" ecc.; e neppure sorbirsi banalità solenni come "la luce spirituale del diamante sepolto nella parola" o "il luttuoso serpente della Ricerca moderna, col suo veleno dove si concentra l'infinito male della volontà di potenza".
D'altronde in questa prosa Ceronetti, lungi dall'abbassarsi a informarci sui suoi criteri di traduttore, prende subito il volo verso i massimi problemi ("Poesia e solitudine", nientemeno, s'intitola il discorso). E nulla fa, anzi, per invitare il lettore dentro casa, ma erge minacciosi steccati. Eccolo che ci intima di "pronunciare ogni parola vera come fosse un'agonia o un testamento", e noi che non ci sentiamo capaci di tanto siamo ridotti al silenzio; e poiché proclama che "non serve lettura, se non si appartenga a un Ordine (sì, maiuscolo) segreto", chi per avventura sia iscritto ad altre parrocchie o non faccia parte di parrocchia o "unio mystica" alcuna, e diffidato perfino dal leggere. Anche l'ascolto prolungato della musica, ormai secolarizzata, è interdetto, perché impedisce di pensare (p. 175). Come passeremo il nostro tempo?
Tuttavia, facciamoci forza e resistiamo. Qualche notizia indiretta sulla concezione ceronettiana del tradurre questo saggio finisce per darla. In particolare sulla natura totalmente anti-storicistica dell'operazione compiuta nelle pagine che lo precedono: "Così, n‚ Moderni n‚ Antichi, n‚ Occidenti n‚ Orienti, n‚ gnomici n‚ simbolisti n‚ eretici: solo dei consegnati a una posizione intenibile, dei testimoni della Luce umilmente nudi" ecc. E da che banda tiri il gusto del traduttore, ce ne accorgiamo subito dalle riserve che, nella passerella degli autori tradotti, colpiscono nient'altri che Machado, che il Nostro trova troppo compassato.
Ma vediamo ciò che succede in pratica. Intanto le versioni ci si parano innanzi superbamente nude, senza il riscontro degli originali, sottraendosi a una verifica immediata delle soluzioni trovate dal traduttore coerentemente a un disprezzo per la bassa filologia che affiora da tutta la postfazione e che fa tutt'uno col disprezzo per il momento sociale della poesia che anziché uscire per la strada all'avventura, in cerca dei suoi potenziali lettori, dovrebbe restarsene accoccolata nel circolo iniziatico di "quelli-che-sanno-già".
Verso la fine si disegnano piccole sezioni (i paesaggi di Zola, i "guerrieri caduti", la guerra moderna, quella civile di Spagna); ma per il resto si mescolano liberamente, salvi i possibili accostamenti per parentela tematica (ad es. a pp. 58-9 un commiato di Kavàfis e l'addio alla vita nell'estrema poesia di Sir Walter Raleigh), testi delle epoche, culture e lingue più diverse. E della più differente natura. Ceronetti, nemico delle poesie di più che una ventina di versi (cioè dell'"impoetico" dei connettivi razionali, della "struttura"), a brevi liriche compiute alterna frammenti strappati da un tutto organico più ampio, si tratti di Lucrezio o di Racine, o perfino di un testo non certo sospetto di eccessiva porosità come un "Quartetto" di Eliot talora, cucendo assieme frammenti distinti, come già il Quasimodo dei "Lirici greci". Non solo, ma volge in poesia anche brani originariamente in prosa, e non necessariamente prosa ad alta valenza lirica: come può essere un pensiero di Montesquieu (che qui suona, epigraficamente: "Sia pure per la patria: mai / Cessare di dire il vero. / Per lei il cittadino / Ha l'obbligo di morire, / Nessuno l'ha mai di mentire"). Ed è innegabile che l'effetto di questo straniamento può essere molto suggestivo, come soprattutto per alcuni cupo-abbaglianti, potenti paesaggi urbani di Zola; ma in sé l'operazione è quello che è.
Così, abolita ogni differenza di storia, di culture, di livelli testuali e generi, fatta sempre uguale la distanza del traduttore - e dunque del lettore - dai testi, soppressa la dialettica stessa fra ciò che, in poesia, è razionale e ciò che non lo è, tutto diviene intercambiabile, omologandosi all'insegna di una generica poeticità sempre sublime e sapienziale.
Quanto suggeriscono queste semplici osservazioni d'ordine genetico e strutturale è confermato da un rapido sondaggio sui modi del tradurre ceronettiano, che ho voluto tentare contravvenendo all'implicito divieto dell'autore, e non senza la fatica di estrarre dagli scaffali - stante lo sterminato orizzonte linguistico e culturale del traduttore - mezza biblioteca. Ceronetti è traduttore radicalmente anticlassico: che non si arrende, facendo di necessità virtù, all'evidenza che ogni traduzione non può che sottrarre espressività e musica all'originale, ma può profittare di questa condanna per mettere a nudo le articolazioni del pensiero poetico. Insomma non si arrende al fatto che la traduzione è anzitutto un'opera di mediazione culturale, solo indirettamente poetica, e vuole renderla immediatamente poetica. Nel che c'è anche qualcosa d'eroico.
La sua tendenza è perciò quasi sempre a sovraccaricare espressivamente l'originale. Un "tremula" di Machado diviene "tremoleggiante", un arrullo (detto soprattutto di tortore e colombe) di Hern ndez, "gemitìo": sempre in Hern ndez "de sombra y de selva" acquista (e indubbiamente con intenso effetto) più sontuosa cupezza reso con "di giungla e oscurità", e sempre in Machado un "Y era la Muerte", in anafora, acquista lo scatto dell'improvviso nella deissi segmentata di "La Morte, eccola"; un'esclamazione raciniana, contenuta nell'intero giro dell'alessandrino e nobilitata dall'eloquenza dell'inversione ("D'un incurable amour remèdes impuissants!"), si scinde sussultoriamente nella doppia esclamativa "Rimedi inefficaci! Mia passione incurabile!"; altrove si acuminano emotivamente in esclamative frasi che in origine non lo sono (qui stesso "cette tˆte charmante" = "Oh testa da vertigini!"). Hern ndez o Trakl, col marchio Ceronetti, diventano più espressionistici di quanto già erano.
Ma è chiaro che i risultati più discutibili di questa accentuazione di espressivismo si hanno con poeti che praticano, e mirabilmente, l'attenuazione classica: Saffo, Racine Machado. Dunque se per la prima è notevole il risultato di p. 87 ("La violenza del vento sulle querce / Di una montagna: Amore / Schianta in me la ragione"), in altro caso le forzature del traduttore mostrano la corda: nel famoso frammento sul tramonto di luna e Pleiadi Ceronetti sostituisce, alle nude, e perciò tanto più lancinanti, constatazioni della
poetessa tutta una serie di espliciti, estrovertiti indici emotivi (invocazioni o appelli, esclamazioni, spossate frasi nominali, "conduplicatio"): "O Luna, sei già sparita! E voi, le Pleiadi, / Vi siete fatte. / Più che mezza la notte è ormai trascorsa, / quante ora partite. E io restata / Sola a dormire, a dormire solaÈ: emotività troppo gridata. E così nei frammenti della "Phédre" (complessivamente un po' sulla linea della versione ungarettiana, di tenebrosa eloquenza barocca), benissimo "Et dérober au jour une fiamme si noire" = "per far sparire / Dalla luce del giorno un così nero incendio", e non importa se si perde una connotazione culturale, l'equazione petrarchistica fiamma "amore" che Racine rende potentemente viva metafora ma presuppone; però è evidente che, rendendo l'altro verso sublime "C'est Venus toute entière à sa proie attachée" con "è l'infinita Venere / Sbranante la sua preda", il traduttore ha squilibrato troppo a favore del primo il rapporto fra figurato e figurante, quasi facendo passare Racine attraverso Benn o Trakl (e "infinita" è proprio una cattiva soluzione).
Questo sovrappiù di sontuosità espressiva è anche del ritmo, del respiro dei versi: dominano ben oliati endecasillabi (molto raramente falsi) che fluiscono l'uno nell'altro morbidamente attraverso le catene di "enjambements" (del resto secondo una consuetudine di tutta la tradizione novecentesca delle versioni poetiche, da noi). L'esito è bene spesso l'omogeneizzazione ritmica dell'originale: come nel Trakl di p. 125, il cui originario frammentato si agglutina, o anche nel "Treno dei feriti" (pp. 171-2) di Hern…ndez, dove il traduttore omette fra i suoi endecasillabi inarcati l'intercalare "Silencio", sopprimendo perciò anche pause forti e duplicità di ritmo. E s'aggiungano alcuni tocchi, più o meno indovinati, di letterarietà: nell'ordine del lessico (p. 157, da Owen: "E dei fucili il balbutire e il sonito", non bene), della sintassi (inversioni, come anche nell'esempio ora addotto, o iperbati prolungati quali, p. 85; "per un barlume / Della mia amata Alessandria / E il trepidare delle sue strade. / E delle sue botteghe, scoprire", che alessandrinizza anche formalmente l'alessandrino di spiriti Kavàfis), della metrica (la tmesi "fugace/-mente", p. 55).
Se per un verso Ceronetti moltiplica gli indici espressivi, in una sorta di continuo orgasmo, per l'altro non tralascia di evidenziare, o creare "ex novo", segnali metafisici. Direi che il livello-base di questa tendenza si coglie già nel costante processo di sostantivazione: ad es., da Hern ndez, 1/2y de tr s de ello, el cielo/ni se enturbia ni se acaba" = "E dietro a loro è il "nitore" / Sempre eguale del cielo", o anche dallo stesso "suavidad y flores" = "fiorite "Mansuetudini", dove collabora l'uso della maiuscola, frequente qui come nella prosa del traduttore (a p. 32 p. es. è fatto maiuscolo il "Passeggero tragico" di Machado). Questa estrazione di sostanze emblematiche può divenire vera e propria entificazione, fornitura di cartellini simbolico-concettuali. Ecco perciò, in Owen, "Where God seems not to care" metafisicizzato in "Nell'"impassibile dimenticanza di Dio" Nel saggio conclusivo Ceronetti discute a lungo del modo migliore di rendere il monaxià "solitudine" o (Pontani) "deserto" di un brano di Seferis, e si dichiara placato se non soddisfatto del tutto della soluzione perifrastica astratta "Quel-che-è-desolato", più ingegnosa che convincente per l'eccesso di esplicitazione, che al solito tiene per le dande il lettore impedendogli di integrare per conto suo. L'episodio è significativo della "mens" ceronettiana. E il risultato complessivo è che, nelle versioni di molti brani di moderni, la dialettica a corto circuito fra esistenza e metafisica che ne è costitutiva si sbilancia a favore del pronunciamento metafisico. "Cos'è il poeta? Un vuoto", suona la chiusa di un Seferis qui tradotto. Ebbene, non bisogna riempire troppo i vuoti.
Con tutto questo non s'intende mettere in dubbio il livello delle versioni di Ceronetti, generalmente assai alto: la sua capacità di ri-creare i testi più varii è fuori discussione. È lecito però mettere in discussione il senso generale del "libro". Neppure si vuole insinuare che il traduttore sia necessariamente a miglior agio con poeti e testi "congeniali": come, a tacere di Bibbia e Corano, l'ottimo frammento di Nietzsche, Zola, Hern ndez; e Villon, alla cui resa cupamente canagliesca senza dubbio ha giovato l'esperienza del traduttore di Catullo, Marziale, Giovenale; o che la congenialità agisca già a senso unico a livello di selezione (certo, l'unico Mallarmé è un Mallarmé, "ab origine", fortemente baudelairiano; e l'unico Verlaine, va da sé, è il maledetto, non lo squisito melodista). Al contrario: una delle sorprese più positive, per il mio gusto, di questa lettura è stato, in blocco, il Kavàfis. Un esempio per tutti, il mirabile saluto ad Alessandria di p. 58. Qui tutto è a posto, anche il gioco delle virgole ("È Alessandria, che parte", "Un'estasi verrà, per te, suprema"). Vorremmo che Ceronetti avesse più spesso trovato, e cercato, questa sobrietà d'accenti.
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