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I temi dominanti (e di conseguenza alcune caratteristiche stilistiche) della poesia caproniana nel suo trentennale sviluppo, a partire dalle Stanze della funicolare, contenute nella raccolta Il passaggio d'Enea del 1956, fino a Il conte di Kevenhüller, del 1986, mi paiono i seguenti: - la claustrofobia, e dunque una certa ossessione del ritmo chiuso e del rimando; - la fobia del viaggio, e di conseguenza un difficile rapporto con la continuità del testo, cioè una certa difficoltà a procedere con l'affermazione, reiterazione e sviluppo di certi temi iniziali, enunciati nei primi versi dei vari componimenti."Che sera è mai accaduta/ Quale notte prelude?", come compare nell'ottava delle Stanze della funicolare, è una doppia interrogativa che nasce dall'ansia dello spazio ristretto, dall'intollerabilità dell'essere compresso e trattenuto, peggio ancora se questa situazione si applica all'atto del muoversi, del viaggiare solitario o collettivo; disagio che spingerebbe il viaggiatore a chiedere l'alt se non fosse vinto dalla sua cerimoniosità, cioè dall'abitudine all'educazione e alla tolleranza nei rapporti, che impongono al viaggiatore di pazientare e sopportare. La poesia di Caproni nasce dal pazientare, dal tollerare antiche forme letterarie, dall'uso continuato di una lingua inadatta alla contemporaneità, per assenza di alternative e sfiducia profonda nella rottura, rivoluzionaria e avanguardistica, di cerimonia e ritualità, qualità, invece, che sole danno la poesia. Ed anche, a corollario, mostrare come temi-ossessioni individuali e privati possano trasformarsi in stilemi e in riflessione linguistica, nel solco spitzeriano-auerbachiano, il solo, mi pare, che garantisca una sufficiente qualità di comprensione dei fenomeni dell'arte della lingua (Maurizio Clementi sulla poesia di Giorgio Caproni).
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