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Il racconto di una generazione da tempo andata altrove e che adesso avverte l’irrinunciabile bisogno di rinsaldare, con la scrittura, una relazione mai interrotta con la propria città: è questa, tra le tante possibili, la chiave di lettura che, più delle altre, mi piace proporre per il nuovo romanzo di Giuseppe Di Piazza (qui ritratto nella foto di Claudio Guaitoli).
Con I cinque canti di Palermo (285 pagine, 17 euro), edito da Harper Collins, il palermitano Di Piazza, oggi responsabile della redazione romana del Corriere della Sera, ci offre una versione riveduta, ampliata e corretta del suo libro di esordio, per la quale ha composto un «quinto canto», forse il più intenso in quanto «impercettibile alla vista, eppure il più visibile per chi è andato via da Palermo: il canto dell’assenza».
E a tornare sui suoi passi per completare l’opera non poteva che essere Leo Salinas, il “biondino” del mitico quotidiano del pomeriggio, che da grande spera di fare il giornalista a tempo pieno e intanto lavora tenendo bene a mente la frase del suo primo direttore; «Fai il cronista, imparerai il mondo». È lui a correre, a bordo della sua Vespa per le strade di una città insanguinata dalla mafia, potendo contare su una buona dose di dedizione e sulla forza d’animo di un ventiquattrenne.
Un giovane che, seppur talvolta invecchiato, assediato e corroso da una miriade di fatti di una violenza inaudita, continua ad amare la sua città e a sentirsi attratto da un mestiere che, a tamburo battente, gli impone di andare a vedere, di persona, come si sono svolti i fatti, per poi raccontarli sulle pagine di un giornale che, atteso da tanti lettori, esce verso le quattro del pomeriggio (lo so, sembra Medioevo, e invece sono solo gli anni Ottanta).
Niente di tutto quello che fa Leo quando lavora è facile, né indolore, nemmeno quando la città non è scossa dall’ennesimo delitto; per ingoiare l’ennesimo rospo gli basta parlare, anche di cose futili, con uno dei suoi capi. Per questo, quando può, tenta in tutti i modi di rifugiarsi nella bellezza, perché il suo Yasunari Kawabata, «una delle poche divinità che all’epoca riconoscevo» ha scritto che «la bellezza uccide la morte».
Sì, perché Leo ed i suoi amici e coetanei, oggi tutti poco più che sessantenni, ebbero allora bisogno di ucciderla, la morte, schiacciati come erano, tra la irrinunciabile voglia di godersi appieno gli anni più intensi della loro vita e l’innegabile circostanza di vivere in una città, in quel periodo sfregiata da una guerra di mafia senza precedenti, dalla quale sarebbe stato più naturale scappare.
E malgrado tutto, Occhi di Sonno (così chiamano Leo Salinas) sa che Palermo, principale vittima di un sequestro quasi interminabile, fu e rimane ancora quel «luogo unico, di profumi, di chiese, cibo e mare» e poi anche «lontano e vicino, esotico e normale», che senza alcuna esitazione oggi torna a confortarlo nelle «notti di cuore sospeso». Da qui, il nuovo canto.
Giuseppe Di Piazza affida a Salinas il compito di dare nuovamente inizio e, adesso, compimento ad una “commedia umana”, che parte dalla vita “non comune: varia e avariata” di un ragazzo che non di rado torna “a casa con le suole delle scarpe sporche di sangue umano” e spesso non dorme perché, sostiene il neurologo, ha la corteccia cerebrale “arricciata”.
Salinas piace perché è un antieroe, non si picca di fare cose strabilianti, né pretende, mai, di avere la soluzione pronta (e come potrebbe averla mai, povero ragazzo?). Talvolta, anzi, sembra rimanere sopraffatto dalla cruenza inaudita di quello che egli stesso chiama “acquario alimentato a sangue” e dal pericolo di una tragica convivenza: “Buoni e cattivi. Vittime e carnefici”.
Ma Leo si è dato, adesso, un compito importante e, come ha sempre fatto, vuole portarlo a termine. Cosa può fare, allora, se non prestare occhi ed orecchie al lettore, affinché lo aiuti a rivivere, in un inedito quinto canto, quel periodo?
Saranno, è vero, quelli, gli anni della guerra di mafia e della mattanza, ma anche degli amici del cuore, delle tante, bellissime, donne, corteggiate e amate, del mare e, perché no, anche di tutte quelle esistenze e fatti, forse adesso più nitidi, che Salinas si prende il compito di evocare, uno a uno, rimanendo sempre in equilibrio tra realtà e finzione. Come al solito farà tutto lui: scriverà, denuncerà, si arrabbierà, e al lettore chiederà soltanto di tendergli una mano nei momenti più complicati, perché, si sa, esporsi a questa età con una dichiarazione d’amore non è mai un compito facile. Soprattutto se l’amata è la città che non hai mai dimenticato.
Recensione di Camillo Scaduto
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