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Aspettative deluse da questo libro. Direi proprio tutte. Ho trovato la storia basata su un’idea vecchia e che, a mio avviso, non ha beneficiato di uno stile capace di coinvolgere e rendere i personaggi vivi e credibili. Al contrario, i dialoghi sono quelli che meno hanno saputo far corrispondere i protagonisti alla loro stessa immagine. Ho trovato il romanzo spento, stucchevole e privo di coraggio nell’andare a scandagliare le emozioni.
Peccato per le poche pagine! Avrei proseguito nella lettura di questo breve romanzo molto volentieri! Storia insolita che però incarna un po’ dinamiche che sono realmente accadute! Super consigliato
Mi dispiace, ma non mi è piaciuto per niente. Non mi sono piaciuti affatto i due protagonisti e non sono riuscita bene a capire come e perché tra i due sia scoccata la scintilla. No, no non mi è piaciuto proprio
Recensioni
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E poi arriva dal passato un romanzo che dimostra come una storia d’amore possa essere grande letteratura. Faccenda complicata e non così frequente. Un amore (prendendo in prestito le parole di Walter Siti a proposito di Cime tempestose) «che porta solo disgrazie e rabbia e vendetta. Quello che si preferisce dimenticare per vivere tranquilli. L’unico che vale la pena». Un amore insolente, che sfugge alle regole, prepotente, scandaloso, con due amanti che nelle difficoltà «sentivano che la loro ragione era la più forte di tutti, perché la loro unica ragione era la vita», convinti che «quella era la vita, ed era la felicità, qualcosa che non aveva né inizio né fine, da percorrere fino in fondo». Una storia pubblicata da un autore ragazzino, Sébastien Japrisot, nel 1950, riscoperta sedici anni dopo, che arriva in Italia con colpevole ritardo, per merito della casa editrice Adelphi, che ne ha affidato la traduzione a Simona Mambrini. L’ultima volta nelle librerie italiane per un romanzo di Japrisot (figlio di emigrati italiani, Rossi il suo vero cognome) risaliva – sull’onda del bel film di Jeunet – a un’edizione Rizzoli de Una lunga domenica di passioni, datato 2005.
Il dolce abisso che si narra ne La cattiva strada (220 pagine, 18 euro) è la passione fra un liceale quattordicenne, Denis, e una suora ventiseienne, suor Clotilde, che scocca in un ospedale, dove gli studenti fanno visita ai malati, costretti dai padri gesuiti della loro scuola. Lo sfondo è quello della Francia occupata dai nazisti – il cibo è razionato, il mercato nero fiorente – ma la fine della guerra è vicina e i pochi soldati tedeschi che fanno capolino dalle pagine sono in fuga, cercano una salvezza che non troveranno; la guerra finisce per essere alleata della coppia che ripara in provincia, con Denis che quasi auspica il proseguo delle ostilità. Vergogna, dubbi, sensi di colpa si agitano nel cuore della religiosa, fin quando i sentimenti non hanno il sopravvento e deflagrano, con conseguenze durissime per la coppia, quelle che culminano nelle ultime pagine, in un finale straziante, shakespeariano, con lacrime e un viaggio.
Incontrollabile e devastante, reciproco, il sentimento travolge un adolescente inquieto nell’austero ambiente della scuola dei gesuiti, e una suora che non ha scelto volontariamente la vocazione. Tra incontri clandestini e gesti proibiti, i due fanno i conti con l’inevitabile condanna della società, della famiglia di lui, delle superiori di lei. Uno dei talenti di Japrisot è dare conto delle pudiche fitte del primo amore, sviscerare un amore del genere, sacrilego, nella cattolicissima e per molti versi oscurantista Francia, contro vari pregiudizi, a cominciare dalla minore età del ragazzo e dai dodici anni di differenza. Gran parte delle pagine – in certa loro apparente semplicità, in una ricercata linearità – appaiono prodigiose, tanto più che l’autore era diciannovenne quando La cattiva strada apparve in Francia.
S’intrecciano ne La cattiva strada, romanzo di anti-formazione, una messe di motivi: i modi in cui ottenere la felicità, il corpo a corpo con i limiti e la libertà dell’amore, la sfida di due anime a Dio, un erotismo accennato, mai volgare, una violenta mescolanza di gelosie e invidie. È uno di quei libri, quello di Japrisot, che si leggono di slancio nonostante una certa lentezza della prosa, salvo rallentare nelle ultime trenta pagine, quasi a non volersene separare, quando però scrittura – che indugia sui dettagli senza esagerare – e vicenda s’impennano in modo repentino.
Recensione di Salvatore Lo Iacono
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