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Un romanzo «che tratta di Amori e Assassini» con la leggerezza dell’opera buffa.
«In nessun altro libro, nemmeno nell’Iguana, che è il suo altro capolavoro, Anna Maria Ortese aveva mai posseduto questa forza: un’immaginazione così sovrana, una sapienza simbolica così ricca, un’arte così fresca e delicata». - PIETRO CITATI
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Una vicenda ed una città, Napoli, magica e stregata. Colpi di scena e personaggi enigmatici che oscillano tra reale e soprannaturale. E la scrittura: Ortese mi fa ricordare perché mi piace così tanto leggere.
Una fiaba moderna interessante, la cui trama, tessuta sapientemente dall'autrice, vanta una prosa semplice, ma allo stesso tempo elegante. La componente più allegorica del racconto, ricco di implicazioni simboliche, risulta forse un po' insidiante nella comprensione della vicenda, ma il romanzo rimane assolutamente una perla nell'ambito letterario del realismo magico.
Lo stile è molto strano e poco leggibile, dal punto di vista lessicale e sintattico: mi ha dato l'idea di un tentativo di imitare lo stile dei romanzi dei secoli addietro (l'autrice è vissuta nel Novecento), che però come risultato ha avuto una serie di numerosi incisi e ripetizioni che rendono poco scorrevole la lettura, come pure l'abuso di costrutti "antichi" quali "la di lei fama, il di lui animo", che non ho mai trovato neppure in opere effettivamente scritte nel Settecento o nell'Ottocento. La trama in sé è del tutto sconclusionata e, a mio giudizio, non ci si capisce niente. Realtà e finzione sono mescolate, il che mi andrebbe più che bene se ci fosse qualche modo di distinguerle o almeno di cavare un significato da questo miscuglio, ma... niente. Sarà senz'altro un mio limite, viste le alte lodi tributate al libro e all'autrice (che, per inciso, sono certo le meriti tutte; semplicemente, si vede che non ha scritto per me), ma ho davvero faticato a finirlo e se lo avessi saputo prima non l'avrei mai comprato. In definitiva, lo sconsiglio a chiunque non abbia voglia di cimentarsi con un'opera molto allegorica (suppongo si possa definire così?) e "onirica", per così dire.
Recensioni
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recensione di Roat, F., L'Indice 1993, n. 9
(recensione pubblicata per l'edizione del 1993)
"Il Cardillo addolorato" nasce come un racconto fiabesco, permeato da un'atmosfera di rossiniana levità, nella cornice leggiadra d'una Napoli fine Settecento dai colori pastello. Tre giovani signori scendono dai Paesi Bassi in Campania per fare visita a un celebre guantaio, padre di due figlie "ugualmente alte, impettite, belle e insopportabilmente 'mute'", anche se esse sanno parlare, giacché di un blocco interiore pare si tratti, d'una algidità dell'anima, evidente soprattutto nella maggiore, Elmina, che subito fa innamorare di sé il più giovane degli ospiti, l'artista squattrinato, il quale tuttavia ottiene inaspettatamente il consenso alle nozze e la sposa.
Ma dopo poche pagine la favola bella si fa dramma inquietante e i toni pacati dell'idillio iniziale mutano rapidamente negli accenti cupi e oscuri di una vicenda intessuta di deliri, ambiguità, falsi disvelamenti, e misteri dolorosi. Man mano che la narrazione procede - in un crescendo di variazioni - ciò che pareva verosimile o assodato non si rivela affatto tale; il ruolo e la funzione degli stessi personaggi appaiono sempre più oscuramente contraddittori. Gli innamorati non sono veri amanti, le sorelle forse non sono sorelle, n‚ i padri autentici genitori di ragazze che si rivelano figlie altrui. Tutto si ribalta, metamorfizza e confonde, a seconda la storia venga raccontata dall'una o dall'altra voce narrante; così di nessun elemento narrativo il lettore è più certo, se non che la "verità del mondo", ovvero ogni opinione, è comunque ambigua e fuorviante, pari a "uno scherzo o un sogno di Satana". Inutilmente i tre amici, uno dopo l'altro, offrono il loro amore a Elmina: essa lo rifiuta, essendosi votata a lenire il dolore ("solo il dolore si deve amare") di un piccolo essere minorato nel corpo e nella psiche, una creatura fra le più umili e reiette "del sottosuolo": un Folletto che nel romanzo sembra ergersi a simbolo archetipico di tutti gli sfortunati "piccerilli" che pur avendo "venti o trenta o cento anni di età rimasero fanciulli". Elmina disdegna quindi l'amore degli adulti, dei sedicenti esseri normali, per preferir loro un bambino diverso, poiché lei ha saputo prestare orecchio al richiamo del Cardillo - figura araldica d'uno stato edenico perduto di armonia con la natura - il cui canto doloroso rammenta l'anelito disperato d'amore di tutti i deboli e diseredati del mondo, alludendo a un "sogno generale di bene". Così, a onta della magmatica cripticità e dei variegati intrecci narrativi, tema centrale di quest'ultimo romanzo della Ortese rimane ancora una volta quello su cui negli ultimi anni si è tenacemente incentrata l'attenzione della scrittrice: denunciare la scandalosa realtà di solitudine e dolore che possono soffrire gli esseri più indifesi della "Natura". E il fanciullo-Folletto del "Cardillo" si rivela dunque la versione maschile di quella fanciulla-rettile amata come una figlia dal protagonista dell'"Iguana", conte Aleardo, il cui corrispettivo femminile è la giovane Elmina: sorella-madre adottiva di un altro indifeso e derelitto "bimbo della Natura".
Chi abbia letto il breve testo narrativo "Folletto a Genova" (che fa parte dell'antologia "In sonno e in veglia", scritta qualche anno fa dalla Ortese) potrà rilevare le analogie tra esso e il nucleo centrale del "Cardillo", che dal racconto prende chiaramente spunto. È sempre il tema della natura oltraggiata e vilipesa da uomini insensibili e gretti, che viene presentato in una visione del mondo onirica e vanamente romantica, la quale sembra comportare una svalutazione della concretezza diurna e oggettiva della realtà. "Io non so più se vivo o sogno", osserva il principe verso la fine del "Cardillo", e pare frase estremamente emblematica, che non solo può far pensare al realismo magico della prima Ortese, ma si pone quale cifra di una poetica intesa a cogliere sempre e solo insieme: sogno e veglia, reale ed irreale, quotidiana materialità e proiezione fantastica.
Ma rispetto ad altre prove, soprattutto all'"Iguana", quest'ultimo romanzo appare segnato da un'estenuazione che lo dilata a un'ampiezza forse eccessiva, la quale sembra ubbidire più a una difficoltà a congedare personaggi e narrazione che a un'autentica urgenza di dire altro. Rimane, felicissimo, il gusto del narrare mediante la levità d'una scrittura evocativa di grande lirismo e suggestione, sfarzosa e musicale nel suo accento barocco, mai manieristico però, capace di variare la pedaliera espressiva dalle ariose e belle descrizioni di gusto manzoniano, alle metafore eleganti, alle più cupe impennate verso abissi allucinati di definitiva angoscia e solitudine, dove la prosa si fa poesia, quasi celebrazione religiosa di un dolore cosmico e assoluto, per mutarsi quindi in attonito stupore rassegnato, spegnendosi nelle interiezioni laceranti, nell'"Oh! Oh! Oh!" - canto, congedo, viatico - del "Cardillo addolorato", con cui il romanzo si chiude.
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