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"Buongiorno, mezzanotte. Torno a casa. Il giorno si è stancato di me: come potevo io-di lui? Era bella la luce del sole. Stavo bene sotto i suoi raggi. Ma il mattino non mi ha voluta più, e così, buonanotte, giorno!" Inizia così una poesia di Emily Dickenson e così è anche il titolo di un romanzo scritto da Jean Rhys, edito Nella Parigi degli anni '30, una donna stretta nella sua pelliccia cammina tra le strade francesi senza meta. Si guarda intorno, dando l'impressione di cercare compagnia. Entra nei caffè, scambia qualche parola con le anime più sbandate di lei. Sorseggia Pernod fino a che il livello di coscienza sia confuso abbastanza da alleggerire il flusso di pensieri che la tormentano. Alloggia in una squallida camera d'albergo, evita posti dove è già stata. Non ha un soldo ma porta con sé un bagaglio emotivo pesante e doloroso. A metà tra un'autobiografia ed un romanzo, intimo come un diario, struggente come un grido di disperazione, queste 168 pagine raccolgono una grande tristezza, un'arresa amara al destino. Sasha non si racconta, è il lettore ad entrare nei suoi pensieri seguendone il fluire potente e confuso, sprofondando in una lettura quasi onirica. Un libro per certi versi difficile ma meritevole.
Se togliamo a Buongiorno, mezzanotte di Jean Rhys (Adelphi Editore) la forte immedesimazione del lettore con le sensazioni descritte, il vissuto e i ricordi che evoca, quello che resta è una storia bella, sì, intensa e toccante ma con una trama sottile, lieve come un fiocco di neve che si scioglie al solo contatto con la terra. Che poi è la metafora perfetta di quelle vite che si consumano come candele che ardono al buio, proiettando ombre piuttosto che luce, vite il cui unico obiettivo è arrivare a fine giornata, prendere una dose, più o meno generosa, di Luminal e svegliarsi l’indomani per… «Mangiare, bere, camminare, trottare. Di ritorno all’albergo. All’albergo dell’Arrivo, all’albergo della Partenza, all’albergo del Futuro, all’albergo della Martinica e dell’Universo… Di ritorno all’albergo senza nome della strada senza nome» Perché questa è la vita di Sasha, un piccolo gesto dopo l’altro, la prova di un vestito, l’acquisto di un paio di guanti, incontri casuali che vanno, tornano, ma resteranno? È venuta a Parigi da Londra, Sasha, insieme a un uomo che a un certo punto l’ha abbandonata, chiedendole perché non fosse annegata nella Senna, piuttosto. Ma è solo questo? Un amore sfortunato può essere l’unica ragione per cadere in uno stato che più che depressivo si potrebbe definire di anedonia, di totale apatia, indifferenza verso la vita, quello stato per cui chi ne è colpito è capace – e non senza difficoltà – solo di compiere i gesti minimi della vita quotidiana? Di fatto, pur labile, la trama racconta di Sasha molto più di quello che appare in superficie, anzi: è proprio lei a raccontarlo in un dialogo con se stessa continuo eppure frammentario, ma non per questo meno spietato e tagliente.
Il titolo è ispirato a una poesia di Emily Dickinson che rimpiange la luce del giorno – quella della giovinezza piena di speranze e ardori - mentre inizia a vivere la maturità. Un libro fluido, ben scritto in prima persona, ambientato a Parigi e a Londra negli anni ’20; probabilmente autobiografico, immensamente triste. La protagonista si trascina, cercando di dimenticare il passato doloroso, il vuoto dentro di sé, programmando la propria vita meticolosamente così da non trovarsi mai sola con se stessa. Dal testo: "Ci vuole un programma. Mangiare. Cinema. Mangiare di nuovo. Un drink. Lunga passeggiata di ritorno all'albergo. Letto. Luminal. Sonno. Non sogni, soltanto sonno". pag. 22. "Ora me ne sto sdraiata sul letto a pensarci su, e penso anche a Sidonie, ai soldi che mi ha prestato, a come mi ha detto: >> Non posso sopportare di vederti in questo stato<<. Occhi socchiusi e un sorriso che significa: sta diventando vecchia, beve". pag. 17. Ricorda i tempi felici: “Sono al settimo cielo. Tutto è liscio e soffice e tenero. Fare l’amore. I colori dei quadri. I tramonti. Tinte tenere, di un pastello nordico quando il sole scompare: rosa, malva, verde, azzurro. E il vento fresco e poi freddo, e le luci nei canali come bruchi d’oro coi gabbiani che sfiorano le acque. Ho la mia bella vita davanti, aperta come un ventaglio nella mano…”. Pag. 109. “Eccoci al punto. Non è il fatto che certe cose succedano, o che uno magari sopravviva, a rendere la vita così strana; è che vengono dimenticate. Persino quell’unico momento che si è creduto fosse la propria eternità svanisce piano piano e viene dimenticato, cancellato. Ecco ciò che rende la vita bizzarra, il modo in cui si dimentica, e ogni giorno è un nuovo giorno, e c’è speranza per tutti, urrà!”. Pag. 129. È bello per lo stile lucido ed elegante, le riflessioni, la percezione della depressione che isola la protagonista e la rende catatonica.
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