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Anno edizione: 2010
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Ispirato al processo Bucharin del 1938 (dei cui atti si traducono in appendice alcuni emblematici passaggi), il romanzo è stato protagonista tra il 1940 e i giorni nostri, tra Francia, Svizzera e Inghilterra, di una tormentata e sorprendente avventura editoriale che Silvia Albesano ricostruisce con rigore filologico e convincente ricchezza di dettagli.
Mosca, anni Trenta. Nicolaj Salmanovič Rubascëv è un commissario politico: è compito suo scoprire gli avversari del regime, interrogarli, punirli. Ma il destino lo porta sul banco degli imputati, vittima degli stessi aberranti trattamenti che di solito era lui a infliggere. In un primo momento Rubascëv si difende, respinge le accuse, resiste alla tortura. Poi invece capitola. L’indottrinamento dell’ideologia politica vissuta con assolutismo granitico, come una fede, ha la meglio su ogni ragionevolezza e sull’istinto di conservazione: Rubascëv finisce per condividere il punto di vista dei suoi inquisitori e accetta la morte come ultimo servizio da rendere al partito. Feroce conflitto di anime, dramma di coscienze indagato con acuminato scavo psicologico, Buio a mezzogiorno mette in scena la tragedia, storicamente realizzata, del cortocircuito tra l’aspirazione all’utopia e le nefaste conseguenze dell’uso improprio del potere.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Portata dalla compulsione alla comparazione letteraria, mi spingo in analogie con il mirabile "Il vagabondo delle stelle" di Jack London e per stile, incisività e potenza, con l'altrettanto apprezzato Curzio Malaparte. L'inquadramento nel genere romanzo carcerario gli fornisce subito l'aura plumbea, stagnante e maleodorante dei foschi antri in cui collidono speranze e si infrangono vite. Ma è anche un submondo parallelo in cui linguaggi diversi vengono codificati per intrecciare relazioni; ancore di salvezza sull'orizzonte degli eventi, prima di essere risucchiati nel buco nero con sistematica, scientifica opera di demolizione dell'essere umano. "Aveva creduto d'aver bevuto il calice dell'umiliazione fino alla feccia. Ora doveva scoprire che l'impotenza ha tante gradazioni quante ne ha il potere; che la disfatta poteva dar le vertigini come il trionfo e che i suoi abissi sono senza fondo." L'impressione che questa lettura lascia, è di sprofondare nelle viscere della Russia stalinista rimanendone inzaccherati; un ammorbante senso di menzogna, intrighi, granitica e inesorabile brutalità che genera dolori complicati. La lentezza del ritmo è inaspettatamente coinvolgente: anche se banali e ininfluenti, le piccole variazioni dalla routine carceraria rendono dinamica e incalzante la narrazione, creando anche una certa suspense. Sensazioni forti, scrittura superba.
Koestler racconta la storia di un vecchio bolscevico, Nicolaj Salmanovic Rubashov, ex commissario del popolo caduto in disgrazia: ne descrive l'arresto, la detenzione, gli interrogatori, il processo per tradimento contro il Governo che egli stesso contribuì a creare, e infine l'esecuzione. Sono gli anni bui del governo del dittatore Stalin, in cui la repressione di dissidenti o contrari alla linea del partito è feroce e spietata. Una volta in cella, gl’interrogatori si susseguono giorno e notte in modo da confondere l’imputato, farlo cadere in contraddizione e fargli firmare una confessione di piena colpevolezza. Il romanzo è ambientato nel 1939 ma è valido per tutto il periodo della dittatura staliniana. Anche il povero Rubashov non riuscirà a scampare al continuo martellamento degli interrogatori e alla fine firmerà una confessione di alto tradimento nei confronti dello stato, che lo porterà alla condanna a morte. Curiosamente va ricordato che Stalin era affettuosamente chiamato del popolo russo “il piccolo padre”: piccolo perché era alto appena un metro e sessanta cm, “padre” perché aveva inviato i suoi “figli“ in vacanza nel gulag sparsi per il vasto territorio russo (più di 10 milioni avevano fruito di questo beneficio e pochi erano stati i sopravvissuti). Tra i vari sistemi di tortura sui poveri detenuti ve n’è uno barbaro e stravagante: sul cranio rasato del prigioniero era applicato lo stoppino di una candela accesa lasciandola bruciare fino alla fine. E’ un romanzo potente, spietato, che non rifugge dal raccontare gli orrori della dittatura staliniana, anzi ne amplifica le vicende. Il testo è diviso in tre parti, centrate sul primo, secondo e terzo interrogatorio, seguite da un capitolo sulla “finzione grammaticale”, cioè su come questi eventi sono raccontati, in maniera fuorviante, al popolo russo. In questo periodo di carestia il governo accusò i contadini di imboscare i raccolti: più di 5 milioni di kulachi erano scomparsi nei gulag.
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