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Anno edizione: 2013
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Questi versi di Roberta Dapunt hanno un destinatario-protagonista privilegiato, incarnato nella persona malata di Alzheimer di nome Uma: la madre, forse, o la suocera della poetessa. Un'anziana, molto amata e rispettata, che ha perso i contatti con la realtà esterna, e con il suo stesso corpo ("da un giorno all'altro/ non hai più detto, non hai proferito, non risposto, non/ hai capito"). Ma questa madre antica che osserva il mondo senza vedere, in piedi immobile accanto alla finestra, o seduta in attesa del niente, era stata un' infaticabile lavoratrice dei campi, una forte donna di montagna, mater familias che radunava intorno a sé la sua gente per il rito quotidiano del pranzo, o per il rosario serale, e per la Messa alla domenica. Persona dalla fede rocciosa e semplice ("fossi io la fede sceglierei te come fortezza"), viveva in assoluta armonia con il suo ambiente: monti innevati, stalle, larici, abeti, e tranquillo silenzio. Un mondo scandito dai riti religiosi - Vespri, Quaresime, Pasque - che ora si ripropone in un'inedita beatitudine, ad aggiungersi a quelle evangeliche: la beatitudine della malattia. Roberta Dapunt, che vive e lavora nel maso di Ciaminades, racconta con la stessa fede dei suoi avi, ma con qualche interrogativo in più (soprattutto riguardo all'inadeguatezza della scrittura quando deve testimoniare il dolore), la sua accettazione del servizio, inteso cristianamente come accompagnamento, vicinanza, fedeltà a chi soffre: e i suoi versi, indifferenti a stilemi letterari di metrica e ricerca linguistica, testimoniano la dedizione umile di chi ancora sa affaccendarsi come Marta, profumare il corpo come Maddalena, dissetare come la Samaritana ("Chiamami quando avrai finito di lavarti./ Ti vestirò le calze, ho posto le pantofole ad aspettare/ i tuoi piedi dalle dita intrecciate"). Nella consapevolezza che "c'è più gioia nel dare che nel ricevere".
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