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Un breve ma potente racconto che esplora le dinamiche familiari e la vendetta attraverso gli occhi di una giovane ragazza. Némirovsky ha uno stile elegante e incisivo, con una prosa che cattura l'essenza delle emozioni umane.
Un piccolo capolavoro che si legge avidamente in poche ore. La potenza narrativa della scrittrice affascina e travolge completamente il lettore.
Un romanzo breve che ho molto apprezzato della Nemirosky sul complicatissimo e travagliato rapporto tra una madre e una figlia . É un racconto a tratti autobiografico molto forte e che consiglio di leggere perché ci permette di entrare in poche pagine nel profondo universo delle emozioni umane che sono ancora oggi delle componenti essenziali della vita.
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Iréne Nèmirowsky (1903-1942) è una presenza importante di quel variopinto mondo di emigrés russi, stabilitosi a Berlino e Parigi, prima di ulteriori esodi sulle rotte della storia, dopo la Rivoluzione d'ottobre, dai cui ranghi sono uscite voci come quella di Mark Aldanov, Nina Berberova e soprattutto, ovviamente, Vladimir Nabokov. Ucraina di Kiev, figlia di un facoltoso uomo d'affari, Iréne Nèmirowsky giunse nella capitale francese, dopo un soggiorno in Finlandia, scegliendo di scrivere immediatamente nella lingua del paese di adozione, parlata fin dall'infanzia nelle famiglie facoltose nella Russia prerivoluzionaria. L'esordio con David Golder (1929) la definisce immediatamente per i suoi interessi principali: il racconto della relazione con un universo familiare claustrofobico, di difficile se non impossibile comprensione, osservato con uno sguardo acuto, di un'intensità che talvolta si fa dolorosa, in cui entrano in gioco anche considerazioni sui risvolti più amari dell'esistenza, con un'attenzione alla dimensione etica delle azioni che la apparenta talvolta a certi percorsi di François Mauriac e Georges Bernanos. Il rapporto tra il protagonista, un finanziere rovinato, e la figlia Joyce è infatti l'asse principale di questa cronaca di abiezione e di riscatto, che ha una dimensione esplicitamente autobiografica laddove l'autrice ripercorre, con le dovute differenze, la carriera del padre, un finanziere rovinato che con tenacia era riuscito a ricostituire la sua fortuna.
Grande successo, nonché immediata quanto duratura notorietà, accolse questo lavoro, come testimoniano ben due versioni cinematografiche dell'opera: una di Julien Duvivier (1930) e l'altra, forse più nota, di ambientazione statunitense, realizzata nel 1951 da Gregory Ratoff con il titolo My daughter Joy , in cui il ruolo del protagonista era magnificamente interpretato da Edward G. Robinson, a fianco di Peggy Cummins. Lo scorso anno in Francia, dove la sua notorietà con alcuni periodi di oblio non si è mai interrotta del tutto, questa autrice è stata di fatto ascritta al canone novecentesco dopo la clamorosa assegnazione del Prix Renaudot 2004, per la prima volta postumo, al notevole Suite française (Denoël), accolto anche da un grande successo di pubblico, ritratto di un mondo sull'orlo dell'estinzione, compiuto nel 1940, organizzando una materia incandescente all'interno di una sofisticata struttura musicale. La sua fama peraltro è stata ribadita anche dalla pubblicazione di un'appassionata biografia, Le mirador , firmata nel 1992 dalla figlia scrittrice, Élisabeth Gille (di lei si ricorda soprattutto il diario di malattia La crabe sur la banquette arrière , 1994), che presenta al pubblico un itinerario esistenziale abbastanza paradossale, destinato a concludersi con il gesto tragico di rifiutare la possibilità di fuga e un secondo esilio, scegliendo di prendere il treno che la porterà alla meta finale di Auschwitz, dove venne deportata malgrado la conversione al cattolicesimo avvenuta nel 1939.
In Italia la sua opera aveva suscitato tempestivamente attenzione dagli anni trenta, sull'onda di un vasto consenso internazionale, e vari suoi titoli erano stati pubblicati ( David Golder , 1932; L'affare Curilov , 1934; Il vino della solitudine , 1947), mentre per avere nuove proposte era stato necessario attendere la fine degli anni ottanta, quando Feltrinelli aveva mandato in libreria Le mosche d'autunno (1989) e una nuova versione dell'opera d'esordio (1992), seguita dalla Giuntina. Adelphi ora riprende il discorso acquisendo l'autrice nel suo catalogo (mentre si annuncia per i tipi della casa editrice una prossima versione di Suite française ), a partire da uno dei suoi capolavori, Il ballo (nella precisa traduzione di Margherita Belardetti), splendido racconto di un'adolescenza inquieta, portato al cinema nel 1931 da Wilhelm Thiele con una giovane e bellissima Danielle Darrieux, che qui debuttava.
Al centro di questa ombrosa parabola sta infatti il ritratto di Antoinette, figlia della terribile madame Kampf, moglie di un ebreo arricchito e smaniosa di affermazione sociale. La protagonista è sempre in lotta con lei che la vuole a tutti i costi confinata a un grottesco ruolo di bambina fuori tempo massimo, per evitare di dover ammettere gli anni di miseria trascorsi e potersi rifare, spietatamente, delle umiliazioni subite in precedenza. Tutta l'attenzione della seconda si concentra quindi sull'organizzazione di un grande ballo che dovrebbe consacrare il suo nuovo status confermato anche da un nuovo indirizzo prestigioso; dalla festa decide a tutti i costi di tenere lontana la rampolla, innescando una reazione catastrofica. Questa, infatti, per vendetta e approfittando di un intrigo sentimentale della schwester , non spedisce gli inviti e nessuno si presenta alla ratifica della tanto agognata promozione sociale, che diventa così uno smacco orribile sotto gli occhi di una parente povera, inopinata testimone del disastro. Le relazioni sociali risultano qui una gabbia impossibile da scardinare e nessuna comunicazione avviene tra i personaggi, se non nella dimensione di una pura e semplice funzione cerimoniale del linguaggio, proprio come avviene anche in uno dei romanzi maggiori, Il vino della solitudine , in cui la giovane protagonista Hèléne celebra violenti riti verbali per prendere le distanze dall'odio che nutre contro la madre fatua e il padre affarista.
Nella stessa direzione, sia pure con ambientazione assai diversa, va anche un'altra prosa breve di grande incisività, Un bambino prodigio (trad. di Vanna Lucattini Vogelmann, Giuntina, 1995), in cui l'ambientazione si spostava in quell'area ebraica che nell'epoca zarista, decisamente segnata da leggi antisemite, si chiamava Zona di residenza. Sulle rive del Mar Nero si svolge infatti la vita del giovane ebreo Ismael Baruch, che rifiuta drasticamente l'ubbidienza familiare, scegliendo di vivere al porto, luogo di "popoli del Levante che sapevano d'aglio, di maree e spezie, che il mare aveva raccattato da tutti gli angoli del mondo e gettato là come schiuma". Un'osteria sarà quindi il teatro della rivelazione del suo talento poetico, straziante e doloroso, che si manifesta sotto forma di canzoni d'amore disperato, amatissime da tutti gli avventori, tra cui si presenta un giorno anche un "barin", un ricco signore stregato dalle sue melodie, che sarà poi il suo tramite con una ricca principessa, eccentrica collezionista di "casi umani" che si innamorerà del ragazzo, o meglio delle sue capacità poetiche. Praticamente venduto dalla famiglia alla spietata nobildonna, il protagonista finirà suicida, dopo essersi reso conto che l'acculturazione a tappe forzate ha ucciso in lui le radici dell'esistenza stessa, in una dinamica non troppo dissimile da quella analizzata nel durissimo Il piccolo Archimede di Aldous Huxley.
Quindi, sia che parli dei salotti parigini che conosceva benissimo e che frequentava, della cosmopolita comunità ebraica di cui mette in luce anche gli aspetti più spiacevoli o dei bassifondi delle città russe, nelle opere di Nèmirowsky è evidente un'attrazione per il lato in ombra delle relazioni umane, per quella zona di non espresso e di rimosso in cui si trovano però, spesso, le più vere motivazioni dell'agire sociale. In questo dichiara senz'altro la propria influenza da Cechov, di cui declina in modo aguzzo le spietate analisi introspettive che portano alla ribalta un clamoroso teatro del desiderio, e al quale d'altra parte dedicò una biografia appassionata, La vie de Tcheckov , ultimo libro pubblicato in vita, nel 1940, che chiudeva il percorso di questa scrittrice appartata che, al di là del battage promozionale, svela un profilo sempre più nitido nel panorama novecentesco, padroneggiando perfettamente il segreto di un'ironia tagliente che non mette mai in ombra la pietas verso tutti gli aspetti dell'esistenza.
Luca Scarlini
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