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Bello e intenso nella descrizione dei luoghi, dei tempi, delle atmosfere e persino dei personaggi, ma estremamente confuso in quella dei fatti, al punto di diventare -alla lunga- pesante. Che poi la confusione sia una scelta stilistica dell’autrice, funzionale al modo stesso in cui ha concepito il romanzo, non cambia la sostanza di questo giudizio.
Un tuffo nella vita degli emigranti Italiani a New York, un intreccio di sofferenza, amori, speranza, scrittura magnifica. Per me assolutamente da non perdere!
L'avevo preso un po' di tempo fa, senza un motivo particolare, preso e portato a casa... e poi poco prima di partire per NY mi e' tornato in mente, ed era li libro giusto per conoscere la NY vera, quella che hanno conosciuto i primi italiani sbarcati nella grande mela....! Be' davvero hanno visto una NY che mai noi avremo il coraggio di vedere. é la storia, la vita difficile di parecchi personaggi che ruotano per la maggior parte del tempo intorno a Vita e a Diamante. Una storia che sa di vero , tanto quanto potrebbe essere immaginazione. Ringrazio Melania per questo lavoro ben fatto, ho visitato grazie al suo romanzo dei posti che purtroppo non sono piu' rimasti tali. Prince Street ad esempio non e' piu' la via degli emigrati italiani.... ora little italy non esiste piu', c'e' solo Chianatown. La lettura è scorrevole, piacevole a parte le battute in dialetto, che non sopporto molto! Io lo consiglio soprattutto a chi ama la citta per poterla vedere sotto occhi diversi...!
Recensioni
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Cosa si aspetta il lettore che prende fra le mani un romanzo intitolato niente meno che Vita, ammesso che non legga i risvolti di copertina per non guastarsi la sorpresa? Certo, potrebbe conoscere l'autrice, ancora giovane (Roma, 1966), ma già pluripremiata (Premio Napoli e Premio Vittorini nel 2000 con Lei così amata, Rizzoli, 2000; cfr. "L'Indice", 2000, n. 6) e plurinominata (due volte finalista dello Strega, con il suo romanzo d'esordio, Il bacio della Medusa, Baldini&Castoldi, 1996; cfr. "L'Indice", 1996, n. 5; e con La camera di Baltus, Baldini&Castoldi, 1998; cfr. "L'Indice", 1998, n. 7). Qualche indicazione in più gliela offre subito la copertina - da una bella fotografia seppiata, databile ai primi del Novecento, lo scrutano i volti maliziosi e sorridenti di alcuni ragazzini e di qualche donna, tutti radunati in un vicolo cittadino stretto e mal tenuto - e l'epigrafe tratta da Mon oncle d'Amérique di Resnais ("L'America non esiste. Io lo so perché ci sono stato"). Poi, ogni aspettativa di largo respiro viene rapidamente bruciata tra la terza e la quarta riga di testo ("Il capitano cerca con lo sguardo i limoni e gli aranci di cui gli parlava Vita..."), quando scopre che Vita è "solo" il nome della protagonista, "una bambina di nove anni, con una gran massa di capelli scuri e due occhi profondi, cerchiati di nero". Questa figurina prende corpo dalle parole del padre dell'autrice, Roberto Mazzucco, dedicatario del romanzo, che traccia la storia della propria famiglia, di Vita, appunto, e del dodicenne Diamante, che insieme lasciano il loro paese d'origine, in provincia di Caserta, per salpare con il piroscafo White Star alla volta di New York. È la primavera del 1903.
Forse l'America non esiste, ma certamente è esistito il sogno americano: Vita, Diamante e tutti i personaggi che man mano emergono dalle pagine di Mazzucco (lo zio Agnello, la bellissima e mite Lena, Rocco, Geremia, Nicola detto Coca-Cola...) lo sperimentano sulla propria pelle, ed è un sogno così reale che fa male, brucia, divora, asseta, distrugge; solo pochi sopravvivono e si risvegliano ricchi, magari quasi annientati sul piano fisico, ma arrivati. I più soccombono, non oltrepassano mai il confine dei quartieri degli emigranti e dei diseredati, o portano la loro giovinezza a morire nelle miniere, nelle sparatorie tra gangster, in cima ai nascenti grattacieli della metropoli, oppure ancora si vendono al miglior offerente perché non hanno più la forza né la speranza per riuscire a realizzarlo, per entrare a far parte della grande nazione che li ha accolti - a onor del vero non proprio a braccia aperte. Sul piano della narrazione si intrecciano, secondo un montaggio variamente alternato, le vicende di molti personaggi (Vita e Diamante - il nonno paterno di Melania Mazzucco - in primo luogo, e poi via via tutti gli altri), ma anche più livelli temporali: i primi del secolo a New York, l'attualità in cui l'autrice è alla ricerca delle fonti necessarie per portare a termine un compito di cui sente l'urgenza e, in qualche modo, la cogenza, gli anni della seconda guerra mondiale, quando il figlio di Vita e Geremia (Diamante, anche lui) viene in Italia per combattere e per ritrovare le proprie radici, e quelli del dopoguerra, in cui Diamante senior e Vita si ritrovano, troppo tardi per realizzare un'unione che sembrava scritta nel loro destino, ma che le circostanze, l'orgoglio, la sfinitezza di un'esistenza impossibile hanno di fatto impedito o rimandato troppo a lungo.
Di vita, dunque, in queste pagine, se ne trova rappresentata una porzione abbondante: il lettore non aveva poi sbagliato a immaginare che di questo si trattasse, di un romanzo che parla della vita in senso lato, della sua straziante bellezza e inutilità, dei maccheroni e delle parole, del mare e della musica, del mito e del commercio di rasoi usa e getta. Dell'amore e, guarda un po', della morte; dell'appartenenza e del tradimento, dei pidocchi che alloggiano perennemente tra i capelli degli emigranti, della Mano Nera, delle grandi vie ferrate americane e persino di Charlie Chaplin (proprio lui!) che, giovane attore inglese emigrato negli Stati Uniti, salva la vita a un Diamante disperato per l'inaspettato tradimento di Vita e ostinatamente intenzionato a trascurarsi fino all'estremo. Analogamente, anche molti generi letterari sono ben rappresentati, dal romanzo storico (i documenti sono manzonianamente disseminati nella trama e opportunamente sfruttati) all'autobiografia, dall'epica al romanzo picaresco: insomma, di tutto, forse di troppo; i due protagonisti sono personaggi riusciti, complessi, spesso struggenti, ma anche sommersi dal desiderio - un po' ossessivo - di doverne giustificare lo statuto, l'identità, la maternità.
Una volta chiuso il volume, rimane l'impressione, non completamente positiva, che l'autrice, cedendo alla tentazione di trattare una materia "familiare" e perciò molto coinvolgente, non abbia saputo rischiare abbastanza, consentendo alle proprie creature di sperimentare una libertà di movimento che avrebbe permesso loro di crescere e spiccare il volo.
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