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Molti hanno detto che la grande letteratura russa comincia con questo libro, con la sua dolorosa asprezza, con la forza del nominare che Avvakum aveva e si trasmise poi, per vie misteriose, a scrittori così diversi come Puškin e Tolstoj. Avvakum visse nella tempesta religiosa del Seicento russo, che culminò nello scisma. La sua parte era quella del perdente, la parte dei raskolniky, i «Vecchi Credenti», contrari a ogni correzione dei testi sacri e a ogni grecizzazione nella liturgia e nella dottrina. Allora la Russia si spaccò in due, e quella spaccatura si prolungò per tutta la sua storia, sino alle dispute fra occidentalisti e populisti nell’Ottocento, fino a oggi.
Rinchiuso nei sotterranei di una gelida prigione, prima di morire Avvakum volle lasciare testimonianza della sua vita – o meglio di come Dio operò su di lui in certi punti della sua vita, e soprattutto nella lotta testarda contro coloro che «col fuoco, con il knut e col capestro vogliono affermare la fede». È una storia di incessanti violenze, dove i contrasti teologici si manifestano a pugni, a calci, a frustate, fra lingue strappate, sepolti vivi, roghi, saccheggi, persecuzioni, fughe nell’immensità asiatica. La vita di Avvakum è come un unico naufragio, dove a sprazzi intravediamo l’arciprete aggrappato a qualche relitto di chiatta: «Fiume renoso, ci si affonda dentro, zattere pesanti, sorveglianti spietati, nodosi i bastoni, secche le sferzate, tagliente il knut, torture crudeli, il fuoco e i tratti di corda». Vi è in lui una carica primordiale, che non si lascia esaurire. Tutto il suo fervore spirituale è intensamente fisico. Si azzuffa con i demoni come fossero cani e il diavolo lo guarda seduto sulla stufa. Un giorno, sfinita sul ghiaccio, l’arcipretessa si rivolge a Avvakum: «“Quanto durerà questo tormento, arciprete?”. Rispondo: “Markovna, fino alla morte”. Al che lei: “Va bene, Petrovic: tireremo ancora avanti”». Questo dialogo è sigillo della storia russa e del suo spirito. Dopo una vita di tumultuose peripezie, Avvakum finì sul rogo. Dice la leggenda che per sette volte lo zar ordinò il supplizio di Avvakum, e per sette volte, mentre il boia preparava il rogo, lo zar e la zarina caddero malati, e intimoriti mandarono un messo per annullare la pena. Per chi apra oggi le pagine di questa Vita non vi è migliore accompagnamento delle parole di Andrej Sinjavskij: «Su Avvakum non si possono fare tanti discorsi: su di sé ha già detto tutto lui, si è ficcato come un orso nella sua tana e l’ha riempita tutta».
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L'autobiografia di Avvàkum ci descrive le misere e tormentate condizioni di vita del popolo russo nel XVII secolo. Ma quello che per me è stata una scoperta (confesso la mia ignoranza in proposito!!) è la descrizione del terribile periodo dello scisma ortodosso (raskol) dal "tempo dei Torbidi" 1598-1613, origini del fermento religioso, alla presa del potere dei nuovi ortodossi, con conseguente persecuzione dei "Vecchi Credenti"!! Tutto ha inizio con la morte dello Zar Fedor dei Rjurik,nel 1598, i moti popolari e il successivo insediamento nel 1613 dello Zar Michail Romanov. Il Pariarca Filaret (1619-1634) inizia il periodo della "Nuova Ortodossia", seguito da Iosif e poi da Nikon che completa la revisione ortodossa degli "Amici di Dio" appoggiato dallo Zar Aleksej. Veramente interessante la Postfazione di Pia Pera su Pierre Pascal che ha vissuto in Russia la rivoluzione bolscevica e successivi avvenimenti in prima persona, descrivendola in maniera oggettiva e deluso rispetto ai suoi ideali socialisti-cristiani, dovendosi arrendere all'evidenza che gli istinti di potere ed ambizione dell'essere umano sono più forti di qualsiasi ideologia per buona che sia ..."Teoricamente"!!!
Autobiografia del santo Avvakum, è un importante trattato storico su uno degli eventi piu importanti della storia russa, vale a dire, la scissione della chiesa ortodossa. Il testo venne scritto da Avvakum volontariamente con la "lingua del popolo" e puo essere considerato il primo scritto della letteratura russa.
L'arciprete Avvakum scrisse questa sua meravigliosa autobiografia con le seguenti parole: "Debbo dire a chi sono simile? Sono simile all'uomo povero che va per le strade della citta' e si ferma agli angoli per chiedere l'elemosina...E' all'uomo ricco, il Re Gesù Cristo, che io chiedo una fetta di pane del Vangelo...Riempita la borsa, io ne do' anche a voi, abitanti della casa del mio Dio. Ecco, mangiate, alla salute, nutritevi, non morite di fame". Un capolavoro!
Recensioni
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scheda di Rastello, L., L'Indice 1987, n. 3
Composto fra il 1672 e il '75 in un sotterraneo a Pustozërsk dove il suo autore, incoercibile guida spirituale dei "Vecchi credenti" ribelli alle innovazioni liturgiche e religiose che sconvolsero la Russia del '600, attendeva il martirio, questo libro circola manoscritto per due secoli, rimanendo quasi sconosciuto; scritto in volgare russo, solo a tratti cosparso di slavo ecclesiastico colto, utile in brani di polemica teologica, rappresenta il primo e fondamentale capolavoro letterario della lingua russa - paragonabile per importanza e anche per vigore di immaginazione alla "Divina Commedia" per l'italiano - e, insieme, un episodio paradossale nella storia della cultura e della comunicazione scritta: quello di un'opera decisiva nell'evoluzione della lingua sempre rimasta al di fuori dei circuiti di diffusione creati dall'affermarsi della stampa a caratteri mobili. Scrive Pia Pera in introduzione: "Se non fosse stato per le persecuzioni e la censura a cui furono sottoposte le opere dei vecchi credenti, con la "Vita" il russo avrebbe potuto avere il capolavoro che l'avrebbe fissata come lingua letteraria". Un'occasione straordinaria d'incontro con l'irriducibile peculiarità culturale russa, offerta fra pagine in cui il divino, il demoniaco e il meraviglioso contendono senza tregua, senza esclusione di colpi e senza trascurare lo scontro fisico, le bastonate, l'uso, magari, a scopi ultraterreni, di un grasso piatto di zuppa di cavoli.
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