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«Poter cacciare tutta la vita e scrivere finché riesci a vivere.»
Verdi colline d'Africa (1935) racconta un safari che Hemingway fece in compagnia della moglie Pauline. Oltre a ritrarre con «precisione» e «verità» il mondo della caccia, Hemingway non rinuncia a conversazioni sull'arte dello scrivere e a riferimenti alla tradizione letteraria americani. Ne risulta un romanzo appassionante che, pur registrando fedelmente la realtà, ha il fascino di una creazione di fantasia. Un libro – per il «Times Literary Supplement» – «che è espressione di una profonda gioia per la vita in Africa. Il gioco della caccia è una parte intensa di quella gioia, ma c'è di più: il colore e l'odore del paese, la compagnia degli amici... e la sensazione che il tempo non conti più».
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Per me è un libro che avevo già letto molti anni fa ed allora mi aveva dato grandi emozioni. L'ho riletto oggi e non ho provato le stesse emozioni comunque un bel libro anche se oggi non approvo la caccia.
Libro incentrato sul racconto dell’esperienza diretta di Hemingway in Africa, nel periodo del 1935 in cui i safari da parte dei ricchi occidentali erano maggiormente in voga. Una pessima storia di quanto l’uomo, persino il più colto, possa comportarsi in modo spregevole e ingiusto nei confronti degli animali, e pur tuttavia ritenere adeguato e giusto il proprio comportamento. Questo ci porta ad osservare quanto “la moda” stessa della cultura sia lontana dal concetto di civiltà che è sempre in evoluzione per migliorare gli atteggiamenti che la società reputa idonei e tollerabili. Ora, seppure ho detestato quasi ogni parte di questo libro, c’è sempre Hemingway che racconta e, quando è la sua penna che scrive, si resta sempre imprigionati dal fascino che elargisce la sua scrittura essenziale, intima, “una prosa senza trucchi né inganni, senza cose che più tardi vadano a male”; Hemingway quando scrive insegna: è il mr. Forrester di ogni lettore-scrittore. Il primo capitolo è incentrato sul mestiere della scrittura, e sugli intoppi cui uno scrittore va incontro. Dello scrittore lui delinea le qualità che dovrebbe avere per esserlo e restarlo nel tempo: “innanzitutto talento, molto talento; poi disciplina; bisogna avere bene in mente quello che ha da essere, e una coscienza assoluta e immutabile per prevenire ogni finzione; intelligente e disinteressato”. Deve avere la capacità di resistere alle “molteplici influenze” che lo soffocano e le elenca: “politica, donne, alcol, soldi, ambizione, oppure mancanza di politica, di donne, di alcol, di soldi, di ambizione”. Poi enumera i casi in cui l’impatto con la società rovina uno scrittore promettente. Che H. non fosse un animalista è risaputo, ma questo racconto in cui è sempre alla ricerca di un animale libero (e indifeso come il Kudu) da uccidere per me è stato un po’ troppo, non sono riuscita ad apprezzarne appieno la scrittura e le descrizioni “tattili” dello stare immersi nella natura e della bellezza di questi animali.
Un libro di una noia e di una boria insopportabile. Al di là del comprensibile distacco se non disprezzo moderno per la descrizione continua dell'uccisione di animali su animali, che vabbe', capisco si debba superare in nome della comprensione dell'epoca dei safari di caccia in Africa e dell'emozione dello sport, il problema vero è che è praticamente privo di trama, di poesia, salvo qualche rara descrizione del paesaggio, ed è pieno della boria di dialoghi snob sulla letteratura e dell'invidia su a chi a le corna d'animale più lunghe. Ho seriamente pensato di abbandonarlo più volte, cosa che raramente mi è successa.
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